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 2023  luglio 11 Martedì calendario

Intervista a Vinicio Capossela



Sei volte. Più una. Le Targhe Tenco sono una costante per Vinicio Capossela. Vinse nel 1991 quella per l’opera prima, la conferma quattro volte nella categoria miglior album e anche un Premio Tenco alla carriera. Ora ha aggiunto un’altra riga al suo curriculum: anche «Tredici canzoni urgenti» è stato giudicato l’album dell’anno dalla giuria. «È l’unico riconoscimento per chi fa il mio lavoro, ovvero quello di scrivere canzoni. È l’Oscar, il Nobel, della nostra umile professione».
Lo scorso anno la vittoria di Marracash aveva fatto gridare alla profanazione del tempio della canzone d’autore, per la sua qualcuno parla di restaurazione…
«Si cerca sempre di categorizzare il fenomeno, come se la canzone d’autore fosse finita con De André: invece è in evoluzione con il linguaggio. Se quello di Marracash è un grande disco è giusto che sia stato premiato. Sono contento che vengano notati ancora album a cui lavorano più di 50 persone solo per la parte musicale. A cui bisogna aggiungere altri professionisti. Nell’era dello streaming l’album ha perso valore industriale: sarà sempre più difficile realizzare dischi così».
Il suo primo Tenco?
«Nel 1986 da spettatore con la mia giovane innamorata per vedere Tom Waits. Un viaggio senza autostrada su una vecchia Opel Ascona: sembravamo il retro della copertina di Blue Valentine del cantautore americano. E non a caso il nostro duo si chiamava così. Fu come affacciarsi a un prisma, a un caleidoscopio, essere immersi in un liquido amniotico che ti nutre. Nel corso degli anni ho fatto incontri detonanti al Tenco, quello con il mio primo produttore Renzo Fantini o Vincenzo Mollica ad esempio, che hanno segnato la mia vita, non solo la mia carriera. Con questo substrato emotivo è comprensibile perché non me la sia mai goduta. Non ho mai fatto una buona performance».
E l’infermeria del Tenco, la mitica sala dove l’alcol conservato non è solo quello per le ferite?
«Perfetta per compromettere un’esibizione...».
Queste «Tredici canzoni urgenti»?
«Il disco è una lettera aperta a questo tempo: siamo scoraggiati nel vederci così atomizzati e individualizzati. Erano canzoni nate con urgenza e che ora si trovano un mondo ancora più deteriorato, in un’epoca di dilagante revisionismo e smantellamento della cultura, di alterazione subdola della coscienza che legittima i bassi istinti. Una volta mollata l’anima, diceva Henry Miller, tutto il resto viene di conseguenza. In questa corruzione del sentire le canzoni possono avere un ruolo».
I brani d’autore non sono finiti
con De André, sono in evolu-zione con
i tempi e il linguaggio
Perché la musica non contribuisce più al dibattito pubblico?
«Il sentimentale e il personale oggi sono la dimensione più diffusa. Se il tuo problema è veramente quale macchina comprare, se lo canti sei sincero. Questo però riflette il fatto che la dimensione collettiva è cambiata: la canzone non fa che rispecchiarlo».
Nell’album i testi mostrano gli eccessi del consumismo, celebrano le staffette partigiane, fotografano la violenza sulle donne e il patriarcato, criticano una destra sessista e arrogante. È un disco politico?
«Sì, ma lo erano anche quelli del passato. Era politico cantare il rebetiko, cui ho dedicato un disco, anche se i testi non lo erano. Allo stesso modo lo era dedicarsi al mondo contadino come in “Canzoni della Cupa”. Questa volta si sente di più la tematica civile».
Dal 20 al 27 agosto torna lo Sponz, nato nel 2013, con anche un libro che celebra i primi dieci anni. Il titolo di questa edizione è «Come li pacci», come i pazzi.
«In questa esperienza non abbiamo seguito ragionevolezza e tornaconto, quindi siamo stati un po’ pazzi. Ho sempre paura della festivalizzazione e dell’industrializzazione dello spettacolo che finisce per ingabbiare e recintare, anche fisicamente, una manifestazione».
Si sa poco della sua vita privata. Perché?
«Non ne parlo e non la mostro sui social. È osceno nel senso di ob-scena, fuori dalla scena. I social danno l’illusione della confidenza, del siamo tutti uguali... Mi fa orrore l’idea di ostentare e condividere quello che mangio: nello spettacolo è diventata una forma di ricerca del consenso. Il mio manager Fantini diceva che la cosa più importante di un concerto è il cartello che dice “vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori”: la necessaria separazione fra realtà quotidiana e sogno».