Corriere della Sera, 11 luglio 2023
Intervista a Giuseppe Cederna
Dell’attore Bela Lugosi si dice che riposasse dentro una bara, per emulare quel Dracula che lo rese un’icona sul grande schermo, Johnny Weissmuller fece risuonare al suo funerale l’urlo di Tarzan. Meno drastico dei suoi colleghi, per immedesimarsi nel suo personaggio più famoso Giuseppe Cederna si limita a servire ai tavoli di una taverna a Karpathos, isoletta del mar Egeo, al pari dell’Antonio Farina che impersonò in Mediterraneo. Come nel capolavoro di Gabriele Salvatores – premio Oscar 1992 —, Cederna sparecchia, porta i souvlaki, saluta i clienti. «Italiani?», la domanda di rito, come da antologia cinematografica. Nel film era il più giovane di otto improbabili soldati costretti durante la seconda guerra mondiale a Kastellorizo, dimenticati, se non da Dio, di certo dall’esercito italiano. Tra polli e asini scambiati per guerrieri nemici e partite di calcio all’ombra di aerei militari, Farina/Cederna in quel posto magico trova se stesso e l’amore. E lì decide di restare. Finzione, si dirà: o forse no.
Si direbbe che ha bucato la quarta parete.
«Lo so, a volte viene da ridere anche a me».
Ma i clienti la riconoscono?
«Otto volte su dieci, sì».
Le chiederanno tante foto.
«Ed è un piacere, a patto che le scattino anche con i titolari».
Cosa fa qui?
«Con la mia compagna aiutiamo una famiglia di amici del posto. Hanno un orto e un piccolo ristorante. All’inizio venivamo da ospiti, poi siamo diventati di famiglia. E, si sa, chi è di famiglia lavora».
Lo spirito del viaggiatore.
«Non faccio il turista. Qui ho anche imparato a fare il contadino: taglio il grano, raccolgo pomodori e zucchine. E sto con i miei amici».
Si intuisce un legame profondo.
«Viscerale. Ci hanno accolti a poco a poco, fino ad adottarci. Ho fatto anche da testimone di nozze a loro figlio, lo aspetto a Roma a dicembre. Sono fortunato, ho due famiglie al mondo».
Quanto tempo passa qui?
«Non meno di un mese all’anno. Venire qui è quasi una necessità fisica, non riesco a farne a meno».
Ha scoperto queste terre con Mediterraneo?
«È un legame ancora più antico. In questi posti venivo da bambino con mio padre Antonio quando faceva l’archeologo. Sono un viaggiatore, un figlio dell’isola che è sempre tornato».
Ancora insieme
Giro da solo per i vicoli e immagino di parlare con Abatantuono, Catania Bigagli... mi fa tenerezza
È tornato anche a Kastellorizo, dove giraste il film.
«E continuo a tornarci. Dal 21 al 27 luglio sarò lì per presentare il mio documentario, Su questa terra, realizzato con Simone Corallini. E per parlare del mio amore per questa terra».
Che posto è?
«Un luogo speciale, con una storia di cadute, ritorni e tragedie. È diventata una meta per italiani, greci, emigrati australiani».
Per lei cosa rappresenta?
«L’isola della giovinezza. Ogni volta che torno rivedo davanti a me i miei compagni di film. Ci immagino di nuovo ragazzi. Giro per i vicoli al mattino o alla sera tardi, da solo, e tra me e me parlo con Abatantuono, Antonio Catania, Claudio Bigagli… Mi fa una tenerezza incredibile».
Cosa ricorda di quel mese sul set?
«Il piacere di stare insieme. Il sole cocente, e noi bardati da soldati a sudare. E poi, quelle partite…».
Prego?
«Dopo aver finito di girare andavamo sul molo giocavamo a calcio-tennis fino al tramonto. Io, interista sfegatato, contro Abatantuono, rossonero. Battaglie all’ultimo sangue, era come se ogni volta anticipassimo il derby».
Chi era il più bravo?
«Gigio Alberti, poco ma sicuro. Poi, nell’ordine, Abatantuono e io».
A proposito, quante volte giraste la scena del rigore sulla pista dell’aeroporto?
«Un paio, non di più. Salvatores era in stato di grazia, sotto la sua guida sembravamo tutti più bravi».
Quel film l’ha cambiata?
«L’isola ci ha cambiato».