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 2023  luglio 11 Martedì calendario

Gli appunti di Halévy sulla Rivoluzione francese

Nell’estate del 1939, alla vigilia dello scoppio del Secondo conflitto mondiale apparve per i tipi di Bernard Grasset un breve saggio dal titolo Histoire d’une histoire che si proponeva di ripercorrere, criticamente, la letteratura sulla Rivoluzione Francese in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’evento. Lo aveva scritto Daniel Halévy (1872-1962), uno degli intellettuali francesi allora più noti, autore di opere che avevano lasciato il segno ed erano state al centro del dibattito politico e culturale come, per esempio, La fin des notables (1930), La Républiques des comités (1934) e La Républiques des ducs (1937). La sua vecchia casa, sulla riva della Senna fronteggiata da un filare di alti pioppi, era considerata l’anticamera della «Repubblica delle lettere». Il salone dove si radunavano, i suoi tanti frequentatori dalle idee politiche più distarate era vasto, arredato con mobili del secondo impero e con quadri di Edgar Degas. Lì, in quel salone elevato al rango di «salotto letterario» si ritrovarono personaggi come il saggista radicale Julien Benda, autore del celebre La trahison des clercs (1927), e il filosofo cattolico Gabriel Marcel, il romanziere François Mauriac e il giornalista Abel Bonnard, l’irrequieto Curzio Malaparte e Romain Rolland e tanti altri. Lì, ancora, si conobbero André Malraux e Pierre Drieu La Rochelle, i quali, al di là dell’amicizia, avrebbero seguito percorsi politici opposti. E, sempre lì, Luis-Ferdinand Céline, dopo il successo del Viaggio al termine della notte (1932), venne a parlare del romanzo sostenendo di avere inventato «una lingua antiborghese». Un singolare universo intellettuale, insomma, il salotto di Halévy, che, da solo, testimonia del peso questi direttore della celebre collana Les Cahiers Verts di Grasset ebbe, al di là dei suoi meriti di scrittore, nella Parigi dell’epoca. Con il passare del tempo Halévy, rampollo di una famiglia dell’alta borghesia e uomo di convinzioni liberali, si era sempre più avvicinato, durante gli anni ’30, a posizioni conservatrici guardando, però, sempre con simpatia, se non con ammirazione, alla «monarchia borghese» di Luigi Filippo d’Orleans: un regime che, nato dalle barricate del luglio 1830 e destinato a concludersi con quelle del 1848, aveva segnato la trasformazione del sovrano da «re di Francia» a «re dei francesi». Ed anche in seguito quando, durante l’occupazione nazista, mostrò un atteggiamento se non proprio benevolo quanto meno attendista nei confronti della Francia di Vichy e di Pétain egli continuò a guardare con occhio nostalgico all’«età dei notabili», epoca per lui caratterizzata dalla libertà come fondamento della società. L’empatia di Halévy per la «monarchia borghese» traspare anche dal ricordato saggio sulla storiografia della Rivoluzione tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia con il titolo Appunti sulla lunga Rivoluzione Francese (Oaks editrice, pagg. 210, euro 18) a cura di Francesco Ingravalle. Va subito detto che questo piccolo testo, vero e proprio gioiello di storia della storiografia, è importante per la ricchezza delle informazioni e l’acutezza di taluni giudizi critici, ma anche perché anticipa alcune conclusioni della ricerca storica contemporanea, a cominciare da quelle di François Furet: in particolare il Furet che ha introdotto il concetto di «lunga durata» nello studio del fenomeno rivoluzionario e quello di Il passato di una illusione (1995), dove, analizzando lo sviluppo della «passione rivoluzionaria» ne mette in luce la sopravvivenza nei regimi totalitari contemporanei. Halévy si propone di analizzare e comprendere come sia stata interpretata nel tempo la «crisi rivoluzionaria» del 1789 e come, poco alla volta, sia stata costruita attorno ad essa una leggenda, divenuta «superstizione nazionale», una «passione», insomma, che celava e voleva celare il fatto che la Rivoluzione era stata un processo disgregatore dell’identità francese da secoli coincidente con la tradizione monarchica. Egli fa notare come dopo le prime e quasi coeve immagini della «crisi rivoluzionaria» in parte condizionate da ripugnanza nei confronti di un avvenimento grondante sangue e sovvertitore di usi e costumi secolari le riflessioni abbiano seguito uno sviluppo per «fasi» legate alla evoluzione politica. I primi saggi storici apparsi negli anni venti, di Adolphe Thiers di François Auguste Mignet, distinguevano già il 1789 dal 1793, l’Assemblea Costituente dalla Convenzione, ma consideravano il Terrore come un fenomeno patologico e pur tuttavia transitorio. Prima di allora erano, peraltro, apparsi lavori primo fra tutti le Considerazioni sui principali avvenimenti della Rivoluzione francese (1818) di Madame de Stal i quali, per quanto condizionati dalla contemporaneità, avevano un valore non misconoscibile soprattutto come anticipatori di temi che sarebbero stati propri della storiografia di impostazione liberale. All’epoca della «monarchia borghese» apparvero storie di ispirazione socialista, come quella di Louis Blanc che individuava in Robespierre il suo eroe, ed opere letterariamente suggestive come quella di Jules Michelet, che elevava il popolo a protagonista. Poi, durante il Secondo Impero di Napoleone III, fu pubblicato un caposaldo della storiografia liberale, L’Antico Regime e la Rivoluzione (1856) di Alexis de Tocqueville che mostrava come le premesse della Rivoluzione fossero presenti nell’Antico Regime, grazie sia all’affermarsi dell’accentramento amministrativo sia all’avvio della disgregazione della struttura feudale della società. Ci furono, quindi, dopo la crisi del 1870-71 e l’avvento della III Repubblica, nuovi sviluppi e orientamenti nella ricerca storiografica: dallo splendido affresco di Hippolyte Taine, che delinea in maniera tuttora insuperata l’evoluzione della Francia moderna fino al regime bonapartista e getta uno sguardo illuminante su comportamenti e psicologia delle folle, agli scritti in qualche misura ispirati alla tesi rozza e ideologica di Clemenceau («La Rivoluzione è un blocco dal quale non si può togliere niente») e via dicendo. Pur con qualche resistenza da Renan a Taine fino a Cochin e agli autori legati al mondo dell’Action Française finì per consolidarsi l’immagine della Rivoluzione come «blocco» e momento fondativo di una nuova epoca della storia. Quel che sfuggiva a questa «superstizione nazionale», per usare ancora una volta la pregnante espressione di Halévy, era il fatto che il «messianismo» implicito in tale visione aveva come conseguenza un esito totalitario destinato a trovare sublimazione nei regimi di tipo fascista e comunista o anche nelle «dittature» populiste proprie delle società di massa. Il discorso proposto da Halévy, che postula la necessità di rivedere la lettura canonica della Rivoluzione, sia pure con un nostalgico richiamo al periodo orleanista, acquista un valore e un significato particolari al di là delle sue conclusioni in gran parte ormai recepite dalla storiografia liberale in un’epoca nella quale le spinte populiste tendono a mettere in discussione gli assetti istituzionali di tipo liberal-democratico. In questa ottica, esso assume una valenza, oltre che storiografica, politica e morale. Che non è certo da sottovalutare.