il Giornale, 11 luglio 2023
Montanelli su Visconti e la censura
Gliela direi senza reticenze, se avessi visto il film. Ma non l’ho visto (e mi dispiace) perché in questo periodo sono impegnatissimo in certi lavori miei che non mi lasciano il tempo di respirare. Vorrei osservare però alcune cose. La prima è che non approvo il piano sul quale si sono posti i giudizi negativi, e cioè il piano morale. È una grossa sciocchezza. I film da condannare sono quelli che offendono il gusto, non la morale. Sono più oscene certe pellicolacce dove non si va al di là del bacio, ma dove esso sa d’aglio e di denti mal lavati che non, poniamo, l’Edipo Re che s’impernia su un incesto. Dove c’è l’arte, non c’è pericolo di cadere nell’immorale. Se l’arte nella pellicola di Visconti ci sia, non lo so perché, le ripeto, non l’ho vista. Ma questo, e soltanto questo, era l’interrogativo da porsi. La seconda cosa che osservo è l’inaccettabilità di una censura plurima. Che diavolo ci sta a fare quella che fa capo al ministero dello Spettacolo, se può essere contraddetta da quelle periferiche autorizzate a vietare in loco la proiezione del film già approvato o imporne dei tagli? Lo so, la legge lo consente. Ma è una legge assurda che spalanca le porte a ogni capriccio e a ogni sopruso. Un film approvato dal ministero non può esserlo solo per Roma o per Lamporecchio. Non ci possono essere pesi e misure diverse a Catania e a Milano. Quindi ci si decida: o si abolisce la censura ministeriale, riconoscendo la competenza della magistratura provincia per provincia, e sarebbe il caos; o si aboliscono queste censure locali che non hanno nessun titolo a contraddire i verdetti di quella centrale, per quanto fallace essa sia. Quanto a Visconti, non so se Rocco e i suoi fratelli potrà farmi ricredere su di lui. Ma il mio giudizio, fin qui, rimane equidistante da quello dei suoi esaltatori e da quello dei suoi detrattori. Credo che se in Italia ci fosse una tradizione di balletti, egli ne diventerebbe il Djaghilev. Come regista cinematografico, trovo in generale che gli manca il senso del personaggio e della misura, come dimostra la sua ossessiva insistenza sul particolare a effetto. Non so se in questo suo ultimo lavoro egli abbia trovato un maggiore equilibrio; ma, da quel che ne sento dire, pare di no. La violenza carnale, lo stupro, la coltellata continuano a essere motivi sui quali la sua macchina da ripresa s’incanta fino a generare nello spettatore un senso di noia e di disgusto. Io non obbietto a Visconti ciò che molti gli rinfacciano, e cioè di andare sempre a pescare l’orribile e il mostruoso: egli ha pieno diritto di farlo. Osservo soltanto che sono gl’ingredienti di cui si servivano anche Carolina Invernizio, Eugenio Sue e tutti quei cattivi scrittori a cui abbiamo sempre rimproverato di aver bisogno, per fare sensazione, del sensazionale. Mi dicono che in Rocco c’è un fratello che stupra la fidanzata del fratello sotto gli occhi di costui buttandogliene in faccia le mutandine, e aggiungono che questa scena è «di grande effetto». Corpo d’un diavolo, vorrei vedere che non lo fosse! È facile, con questa roba, dare i brividi allo spettatore. Difficile è darglieli con gli episodi della vita di tutti i giorni, ed è qui che, secondo me, si vede l’artista. Le vere grandi pellicole, come i veri grandi romanzi e le vere grandi commedie sono quelle in cui non succede nulla di eccezionale, ma questo nulla è raccontato in modo da avvincere lo spettatore o il lettore e da sollevarlo su un piano di poesia. Gli episodi dell’Oro di Napoli di Marotta, tanto per restare nel campo dei «terroni» su cui si è posto Visconti, erano semplicissimi, tratti dalla osservazione della vita quotidiana. Eppure, come ti prendevano alla gola! Senza sangue, senza sbudellamenti, senza deflorazioni. Ma forse Rocco vale per tutt’altre cose che non per gli «effetti» di cui Visconti si è servito solo come di un condimento. O per lo meno me lo auguro. Per lui.