il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2023
Biografia di Dante Castellucci
S embra un racconto di Jorge Luis Borges, richiama in qualche modo il Tema del traditore e dell’eroe. Invece è una storia vera, una storia drammatica della Resistenza: quella del giovane partigiano calabrese Dante Castellucci, nome di battaglia “Fa c i o”, comandante del battaglione “P i ce l li” operante tra La Spezia, Pontremoli e Parma. Destino atrocemente grottesco, il suo. Venne infatti ucciso il 22 luglio 1944 in Lunigiana da altri partigiani, al termine di un processo farsa, in cui fu accusato di essersi impadronito di materiali lanciati dagli alleati. Poi, nell’aprile 1962, gli venne concessa con una motivazione falsa la medaglia d’argento al valor militare, facendolo passare per una vittima dei nazifascisti, un partigiano caduto in combattimento. Così la verità venne occultata per anni. Non è la prima volta che viene narrata la vicenda di“Fa c i o”(1919-1944), anche di recente se ne è occupato Roberto Gremmo nel suo libro sui sette fratelli Cervi, ai quali Castellucci si era legato negli ultimi mesi del 1943. Ora a ricostruire la vita e la tragica fine del partigiano nato a Sant’Agata, nel Cosentino, è l’inge – gnere e giornalista Pino Ippolito Armino. Lo ha fatto con I nd ag in e sulla morte di un partigiano. La verità sul comandante Facio, un’inchiesta esemplare pubblicata da Bollati Boringhieri. Castellucci, racconta Armino attraverso le testimonianze dei sopravvissuti e con diverse carte inedite, era entrato in contatto con i Cervi nelle prime fasi della Resistenza. Catturato con loro il 25 novembre 1943, riuscì però a fuggire. La fuga gli costò una ingiusta accusa di tradimento da parte dei comunisti reggiani, gli stessi che avevano osteggiato la banda dei sette fratelli Cervi. Riparato sull’Appennino, fra il Parmense e la Lunigiana, si distinse subito nella guerra partigiana. Fu un comandante amato, ardito, tanto da guadagnarsi in vita una fama da leggenda. I bollettini degli angloamericani diedero risalto a una sua azione, in cui, assieme ad appena otto compagni, fronteggiò 150 nazifascisti per un intero giorno. Divenne “uno dei simboli”, scrive Armino, “più audaci e più puri della lotta di liberazione”. Si arrivò al luglio del 1944. Le rivalità tra le formazioni partigiane, soprattutto lo spirito libertario di “Fa c i o” e la sua indipendenza che si scontravano con la volontà del Partito comunista di non perdere il controllo del settore spezzino della cosiddetta IVª zona, decretarono la condanna a morte. Inconsapevole della sorte che lo attendeva, abbandonato dai compagni per viltà e opportunismo, “Fa c i o” si consegnò spontaneamente ai suoi assassini. Le modalità della sua uccisione rimangono tuttavia oscure. Afferma comunque Armino: “La parabola dei Cervi non si chiude con la loro esecuzione il 28 dicembre del 1943 ma con la fucilazione di Dante”. La riscoperta di questa pagina della lotta di liberazione, che Armino ha fatto con passione e accuratezza dopo anni di ricerche, non è un atto di accusa verso la Resistenza, ma, al contrario, è l’esaltazione dei suoi valori veri, che infrangono il tempo. L’eredità di “Fa c i o”, ci rammenta l’autore del libro, è quella “sua volontà tenace che si adopera senza risparmio perché il cambiamento necessario diventi anche possibile”.