La Stampa, 10 luglio 2023
La fabbrica della felicità
«La felicità è una delle cose più importanti della vita. Dura poco ma quando c’è è assurda. È una scossa elettrica, una coperta che ti tiene al caldo, è quando sorridi sotto la pioggia. Se sono felice corro, salto, canto. Ce l’hanno tutti la felicità, basta cercarla. Quando sono con le mie amiche e ridiamo per delle cavolate e non riusciamo più a smettere. Accettarsi e accettare il mondo ma è anche un modo per conoscersi. Io sono felice perché qualcuno si sta interessando alla felicità di noi adolescenti».
Sono alcune delle risposte di un questionario che è stato sottoposto a 1700 ragazzi e ragazze di scuole secondarie di primo e secondo grado della Toscana. Ne parlo con Manila Bonciani, responsabile del centro ricerca e formazione sulla felicità, gemellato con il centro omonimo di Harvard.
Sono a Firenze, al Meyer Health Campus, un posto così bello che devo farmi ripetere più di una volta dal direttore Alberto Zanobini che si tratta di un ospedale pubblico costruito con soldi pubblici.
«Il Meyer», per tutti i fiorentini, «l’Anna Meyer» lo chiama invece Zanobini, perché a lei è intitolato e per una piccola restituzione in termini di genere. Il vecchio ospedale pediatrico Meyer era in via Luca Giordano, a pochi passi dalla stazione di Campo di Marte. Il 14 dicembre 2017, in quella che nella memoria della città sarebbe diventata «la notte dei bambini», era stato trasferito all’ex villa Ognissanti di Careggi. Mentre sfilavano le ambulanze coi piccoli pazienti, i clown per distrarli e i genitori per rassicurarli, ai lati della strada i fiorentini applaudivano il passaggio di quella strana sfilata. Il Meyer Health Campus è stato inaugurato dal ministro Speranza nel dicembre 2022. All’ingresso una scritta al neon con l’articolo 31 della Costituzione: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività».
La sala di accoglienza l’ha dipinta Altan ed è un tripudio di meravigliose Pimpe, Armandi e coniglietti. Al desk ragazzi molto giovani – l’età media di chi lavora al Meyer è di circa 40 anni, con una netta prevalenza di donne, spiega Zanobini – col compito di aiutare le famiglie dei ricoverandi, compreso aiutarli a trovare un alloggio. Ci sono mediatori culturali per chi viene da altri paesi e culture, e assistenti sociali. L’idea è che la cura deve essere globale, mi spiega Zanobini, e la bellezza è parte integrante. Le strutture sono nuove, pulite, con grandi vetrate affacciate su un grande parco silenzioso. Alcune ragazze accompagnate dalle madri passeggiano. Anche la salute mentale dei dipendenti dell’ospedale fa parte del progetto. In questa “Fabbrica di salute e conoscenza” che percorro con crescente stupore, c’è un centro per il benessere per operatori, medici e infermieri. «Chi si prende cura di chi cura? Travolti dal Covid e dallo stress, i nostri 1500 dipendenti vengono ascoltati e seguiti, curati».
Un’ala del Campus è dedicata alla formazione. C’è una sala operatoria dove vengono simulati gli interventi e enormi scatole che contengono manichini con le fattezze di bambini. Ne aprono una davanti a me, dentro c’è un corpo diviso in pezzi, braccia, gambe, testa ognuno sistemato nel suo scomparto di spugna. In un’altra stanza, in una grande libreria, altri manichini, interi sono sistemati sugli scaffali, pronti per essere scelti. Sembra la scena di un romanzo di Philip Dick, e quando si offrono di mostrarmi anche un neonato in polipropilene fatico a dire di no. «Noi costruiamo salute», dice Zanobini. «Curiamo, certo, ma lavoriamo molto anche sulla prevenzione. Se non facciamo prevenzione, se interveniamo solo sul disagio mentale conclamato, non ce la faremo mai. Bisogna con tutti i mezzi cercare di arginare il disagio degli adolescenti. Per questa ragione lavoriamo con le scuole, proviamo ad aprirci verso l’esterno».
Proseguiamo, ci accompagna in questo giro anche Luigi Sgarra, che è stato il responsabile del progetto fin dall’inizio. Quattromila metri quadri, acquistati dalla Curia, due anni di lavori effettivi ma una progettazione che inizia già nel 2017, anno del trasferimento. Progetti, gare di appalto, lavori… i soldi sono del Ministero, dalla Regione e dalla fondazione Anna Meyer. Il Campus viene usato anche per convegni, c’è un cinema, un auditorium attrezzato, dove mi fermo a parlare di felicità con Manila Bonciani. È lei la responsabile del progetto con le scuole. «Bisogna costruire nuove evidenze, raccogliendo dati. Questa è la ragione del test sulla felicità. Formiamo gli insegnanti, rispondiamo alle loro richieste di aiuto, diventiamo loro alleati. Facciamo laboratori ludico-esperienziali per i più piccoli, utilizzando il gioco, e i role play». I giochi di ruolo, che in psichiatria somigliano a quelle che Hellinger chiamava le costellazioni familiari, messe in scena nelle quali i partecipanti vengono chiamati a impersonare personaggi delle proprie ossessioni, dei sogni, figure archetipiche e familiari, responsabili del loro disagio. «Agli insegnanti abbiamo proposto un percorso formativo. Ogni insegnante è partito da un caso della sua scuola. Gli abbiamo offerto nuove chiavi di lettura del disagio, dell’autolesionismo partendo, per esempio, dalla competitività. Anche con loro abbiamo lavorato su role play facendogli impersonare famiglie, presidi, ragazzi per mettersi anche nei panni degli altri. Davamo le tracce ma loro decidevano le reazioni dei personaggi attraverso il contesto. Con i ragazzi più grandi abbiamo fatto l’attività di laboratorio producendo dei video. Quest’anno il filo conduttore era appunto la ricerca della felicità».
Continuo il giro del Campus con Tiziana Pisano, neuropsichiatra infantile, responsabile del reparto di Psichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza. Mi mostra le stanze del day-hospital, la cucina dove si preparano i pasti assistiti per ragazze e ragazzi che soffrono di disturbi alimentari. Nel reparto per i degenti ci sono dodici posti letto e una cosiddetta soft room. Una stanza con le pareti imbottite, una luce tenue, musica e un televisore. Uno spazio dove mettere in salvo chi è in preda all’agitazione e dove, mi racconta la dottoressa Pisano, a volte chiedono i ragazzi stessi di rifugiarsi, se sentono salire l’ansia e vogliono starsene tranquilli. «La prima cosa da fare, rispetto al disagio mentale, è eliminare lo stigma. I pazienti pischiatrici sono uguali a tutti gli altri, vanno in giro per l’ospedale, vanno in ludoteca per conto loro», spiega Zanobini. «Escono anche in giardino, sempre accompagnati da un genitore. I genitori sono qui 24 ore su 24, fanno parte del percorso di cura. Ci sono dei momenti in cui parliamo più con i genitori che coi ragazzini».
Chiedo anche a loro se la situazione è peggiorata dopo la pandemia. «L’incremento post-pandemia c’è stato ed è stato notevole» spiega la dottoressa Pisano. «Prevalentemente sono aumentati i disturbi alimentari e l’ideazione suicidaria. Ma la crisi è iniziata prima. È difficile dire perché, e cosa stia accadendo. È un insieme di fattori diversi. Siamo più richiestivi come società, le relazioni sociali sono più complicate, il tessuto sociale è meno protettivo, tanti nuclei familiari sono divisi e bisogna imparare ad avere a che fare con mamme, padri, nuovi compagni dei genitori separati». Quando uno si accorge di avere una figlia o un figlio in una condizione di disagio mentale, che cosa deve fare, le chiedo. «Farsi consigliare dal medico di base, il pediatra di famiglia o anche il medico curante che si ha da tanto tempo e di cui ci si fida. Ora c’è più collaborazione tra colleghi medici. Andare subito in ospedale non è una buona idea, ma una diagnosi precoce è fondamentale, ecco perché è importante sensibilizzare. Ed è anche la ragione per cui abbiamo difficoltà con i ragazzi adottati, dei quali non conosciamo le condizioni dei primi anni di vita».
Le chiedo di raccontarmi una storia che l’abbia colpita in modo particolare e mi parla di una ragazzina di tredici anni, che veniva da un altro stato europeo. Il padre era italiano, la madre no. «Era ricoverata in un ospedale da un’altra parte dell’Europa, siamo sicuri che lì avessero utilizzato anche la contenzione meccanica, perché alcune volte non riuscivano a gestirla per le crisi di agitazione psico-motoria. Lei è arrivata qui, perché il padre è riuscito a farla portare in Italia. Non aveva nessuna competenza, non riusciva più a parlare, non capivamo neanche se conosce l’italiano o fosse più a suo agio con l’altra lingua. Clinicamente siamo riusciti, piano piano, con i farmaci, a rimodulare la situazione. L’abbiamo stabilizzata, ma poi non riuscivamo a dimetterla, perché non volevamo che finisse in comunità. Il problema è sempre quello che accade quando escono. Nel suo caso la separazione conflittuale dei genitori aveva mobilitato assistenti sociali e giudici che dovevano dare la valutazione e l’assenso. Ci siamo ritrovati in pieno Covid di fronte a questo giudice, io e la dottoressa Antonelli che seguiva la ragazza insieme a me, contro tutti. Ci siamo battute, abbiamo spiegato che la ragazza non era in grado di esprimersi, non era autonoma e che avrebbe avuto bisogno del padre, l’unico affetto stabile che le restava. Il giudice si è fidato di noi e, affiancata dalla rete del territorio che l’ha accompagnata fisicamente, è tornata a casa con il papà. Adesso ci manda le foto, lei che balla, lei che fa i saggi di musica. A volte le cose più difficile sono le più giuste, e quel padre non ha smesso un minuto di combattere per la sua figlia». Lascio il Campus un po’ a malincuore, con un pensiero semplice: quanto sarebbe più facile vivere in questo paese se le strutture pubbliche fossero belle, accoglienti, efficienti? Quanta rabbia ci risparmieremo ogni giorno se i soldi che spendiamo per sanità e istruzione fossero spesi bene? —