La Stampa, 10 luglio 2023
I contratti pirata
L’intestazione è promettente. Sulla prima pagina è scritto che si tratta del «Contratto nazionale per il personale dipendente delle micro, piccole e medie imprese dei settori di pesca, acquacoltura e maricoltura ispirato ai principi della Blue economy sotto qualsiasi forma giuridica costituita, compresa la forma cooperativa». Un titolo di 34 parole che lascia immaginare un mondo animato da operosi pescatori inseriti in un sistema economico che non inquina, fatto di piccole comunità in cooperazione tra loro per migliorare il mondo. Il contratto ha per firmatari la Federazione nazionale della pesca Cnl, per la parte datoriale. E la Fild, Federazione italiana dei lavoratori dipendenti «nata nell’anno 2018» per «creare una valida alternativa al sindacalismo ideologico». Così almeno si legge sul sito di presentazione.
Si immagina che tante buone intenzioni abbiano prodotto massicce adesioni al contratto nazionale. Incredibilmente invece il sito del Cnel, dove sono registrati tutti i contratti di lavoro, riporta tristemente che al famoso contratto nazionale non ha aderito alcuna impresa. E quindi quel contratto non viene applicato ad alcun lavoratore. È un contratto fantasma, registrato ma inapplicato. Perché?
Quello dei contratti senza applicazione è solo uno dei misteri nella giungla dei contratti italiani. Non si parla naturalmente di quelli firmati dai sindacati maggiori (Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Cobas, Fismic) che hanno nei fatti una rappresentanza riconosciuta. Né tantomeno di quelli firmati dalle associazioni imprenditoriali, come Confindustria, o da grandi aziende che sono fuori dal sistema confindustriale come Stellantis e alcuni istituti bancari.
Il gruppo dei contratti maggiori comprende circa 200 accordi firmati nei 14 macro settori in cui è stato suddiviso il mondo del lavoro italiano.
Fino alla fine del Novecento erano meno di 50. Ma il sistema del lavoro era oggettivamente più semplice. Le categorie di lavoratori erano più definite. Poi la frammentazione dei mestieri ha finito per portarsi inevitabilmente dietro quella dei contratti.
«Certamente il mondo del lavoro è cambiato ma la proliferazione dei contratti cui abbiamo assistito negli ultimi anni è patologica», dice Gianna Fracassi, responsabile nazionale dei lavoratori della conoscenza della Cgil. I dati sono impressionanti. Negli ultimi dieci anni i contratti depositati al Cnel sono passati da 555 a 1.091. Un’esplosione. Nel solo settore del commercio sono diventati 130. Spesso si tratta di contratti disegnati su misura per qualche azienda o per piccoli gruppi di lavoratori.
Il paradosso è quello dei dipendenti degli studi professionali che aderiscono al contratto con codice Cnel H449. Un contratto firmato da 5 organizzazioni dei datori di lavoro e da 5 sigle sindacali minori. Il risultato è che l’accordo viene applicato in una sola azienda in tutta Italia e riguarda due soli lavoratori sui 13,5 milioni di dipendenti privati della Penisola. Se solo i firmatari lo avessero applicato a se stessi la platea del contratto sarebbe quintuplicata.
A chi giova la giungla? I cosiddetti contratti pirata (e non sappiamo se gli esempi che abbiamo fatto rientrino in questa definizione) sono una delle piaghe del sistema del lavoro italiano. Firmati da sindacati non di rado di scarsa rappresentatività servono da riferimento per abbassare norme e salari rispetto ai contratti maggiori. Fanno da pesci pilota per tutti i contratti che oggi sono certamente sotto quei 9 euro l’ora che si vorrebbero fissare come salario minimo.
E poi ci sono i casi di dumping tra sindacati. Favoriti, in qualche caso, dalla pubblica amministrazione. È l’esempio del contratto firmato da Ugl con Federservizi, riconosciuto dalla Regione Sicilia. «Da dieci anni non si riesce a rinnovare il contratto della formazione professionale, per difficoltà degli stessi enti di formazione e per la mancanza di fondi delle stesse Regioni», sostiene Fracassi. E spiega: «Ora la Sicilia e in parte la Lombardia applicano il contratto Ugl che porta da 36 a 40 il tetto massimo delle ore di lezione. Un contratto peggiorativo rispetto all’esistente».
Ma tutto questo scioglie solo in parte il mistero dei contratti fantasma. Per quale motivo associazioni imprenditoriali e piccoli sindacati devono firmare un contratto che viene regolarmente depositato e registrato e poi non applicato? All’ufficio del Cnel che certifica i contratti una spiegazione ce l’hanno: «Quel che noi certifichiamo – spiegano i tecnici – è il numero del contratto e, attraverso la banca dati dell’Inps, il numero dei lavoratori e delle aziende che lo applica». Il problema è che manca un banca dati decisiva: quella del Ministero del Lavoro che, incredibilmente, ha un sistema informatico non in grado di parlare né con il Cnel né con l’Inps. Ed ecco spiegato l’arcano: «Al momento dell’assunzione – dicono i tecnici del Cnel – il datore di lavoro comunica all’Inps a quale contratto fa riferimento per il trattamento pensionistico del nuovo dipendente. In genere le imprese indicano il trattamento previsto dai contratti firmati dai sindacati maggiori. Nella lettera di assunzione invece al lavoratore viene indicato il trattamento previsto dal contratto fantasma. Quella lettera è registrata al Ministero del Lavoro ma non risulta a Inps e Cnel». Così i contratti fantasma riprendono vita: a dispetto delle statistiche sono molti di più i lavoratori con contratti al ribasso firmati dai microsindacati. Appunto, la giungla. Senza una legge che stabilisca chi ha la rappresentanza per firmare i contratti, pirati e fantasmi continueranno a farla da padroni nel mondo del lavoro italiano. —