Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  luglio 09 Domenica calendario

Su "Il messaggio" di Mai Jia (Marsilio)

Chiusa in una residenza nobiliare, la storia non può uscire. Resta lì, a macerare. Ce l’ha confinata — per via romanzesca — Mai Jia, autore che in Cina vince premi, raccoglie onori e incarichi, e riesce a farsi apprezzare all’estero. Nella Tenuta Qiu, non lontano dai laghi che rendono il paesaggio della città di Hangzhou una delle meraviglie cantate dai poeti classici, sta l’epicentro di un intreccio che si dipana in alcune centinaia di pagine e si intitola Il messaggio. Un giallo che diventa un po’ storia di spionaggio, ambientata durante l’occupazione giapponese, sul crinale tra 1939 e 1940. Più incisivo del precedente Il fatale talento del signor Rong, incentrato su un crittografo, Il messaggio per buona parte indulge nelle minuzie e nelle delizie del sottogenere noir della «camera chiusa». Con la differenza che non c’è un assassino da snidare né un campionario assortito di individui sospetti, alla Agatha Christie, ma un (o una) agente comunista, dunque «buono», un patriota, nell’ovvia grammatica morale realsocialista. Un perfido e acuto ufficiale giapponese spera di acciuffarlo prima che faccia filtrare una comunicazione ai compagni.

L’ambientazione va sul sicuro. La guerra di liberazione antigiapponese, epos eroico lucidato per decenni dalla propaganda e assiduamente frequentato dalle arti, offre infatti al lettore cinese un ambiente familiare e a quello straniero uno scenario esotico ma non del tutto alieno. In questo caso Mai Jia, che nella vita ha lavorato nell’intelligence dell’esercito, attinge al sottobosco torbido del regime fantoccio del collaborazionista Wang Jingwei, al servizio degli invasori giapponesi che controllavano il nordest e l’est della Cina. Contro di loro combattono sia i nazionalisti di Chiang Kai-shek, cioè il Kuomintang, sia i comunisti di Mao Zedong, alleati ma rivali (alla sconfitta del Giappone nel 1945 la guerra civile tra i due partiti ricominciò, fino alla ritirata a Taiwan dei primi e alla proclamazione della Repubblica popolare il 1° ottobre 1949 da parte dei secondi). Le tinte nelle quali Il messaggio immerge Hangzhou sono dunque quelle di una Salò o una Vichy cinesi, dove gli opportunisti fanno affari con gli occupanti, i funzionari del regime fantoccio sono indistinguibili dai gangster che hanno accumulato fortune negli anni precedenti e, soprattutto, tramano le spie di ogni fazione.

È proprio per sventare un’operazione coperta dei comunisti che il colonnello Hihara convoca nella Tenuta Qiu quattro personaggi variamente coinvolti nel sistema di potere di Wang Jingwei. Due uomini e due donne. Il giapponese cerca Fantasma, agente dei «rossi» e, coadiuvato dai suoi subordinati cinesi, incrocia indizi, blandisce, minaccia, osserva, isola i convitati: «Il mulino degli dei macina con lentezza, ma è anche implacabile», avverte l’autore. Una delle persone sospettate fa una brutta fine e intanto nessuno sembra essere in grado di fare uscire dalla sorvegliatissima Tenuta Qiu il messaggio del titolo, anche se — scopriremo — «nella calligrafia si nascondono draghi, e nei dipinti tigri accucciate»...

Il romanzo è strutturato in tre sezioni, con le prime due che restituiscono l’intreccio dal punto di vista di comunisti e nazionalisti, mentre nella terza «il personaggio che ha il mio stesso nome riflette su ciò che è accaduto, colma le lacune, disseppellisce alcune vecchie asce di guerra», scrive Mai Jia. In realtà la costruzione del libro giustappone ai primi due pannelli, claustrofobicamente dedicati all’enigma, una parte dove i personaggi si trasformano da attori della sciarada, appiattiti su un ruolo logico-enigmistico, in figure a tutto tondo. Un reticolo di digressioni, poi, dà spessore al contorno: la ricerca di un tesoro nascosto, le vicende dei vecchi proprietari della Tenuta Qiu, i trucchi degli infiltrati comunisti.

Senza entrare nei dettagli della trama, operazione a rischio spoiler, l’allargamento di prospettiva in vista del finale vale soprattutto per le due figure femminili, Gu, figlia di un ricco imprenditore in affari con il regime collaborazionista, e Li, silenziosa ed efficiente funzionaria. Le lega una complessa, altalenante dinamica psicologica di vicinanza e respingimento. Eppure è il giapponese Hihara a rivelarsi il più interessante del cast. Già studente dotatissimo, Mai Jia ce lo racconta appassionato di cultura cinese, lettore di poesia, ammiratore di una tradizione nella quale contempla le radici del proprio mondo. Si accosta allo scrittore Akutagawa Ryunosuke (figura reale: uno dei grandi autori del modernismo nipponico, a lui è intitolato uno dei maggiori premi letterari giapponesi), che sta in Cina, e lo frequenta. Diventa reporter, racconta quel Paese. Però «la carriera di giornalista l’aveva cambiato, perché ormai il suo mondo non era più fatto di libri, ma di uomini»: Mai Jia registra la metamorfosi progressiva di Hihara, interrogando il percorso di chi, amando la Cina o quantomeno un’idea della Cina, finisce con il combattere i cinesi. Proprio in virtù della sua conoscenza del Paese, il colonnello dell’esercito imperiale presume di poterne scandagliare i segreti e la mentalità. Una perversità, e una perversione, che riflettono la perversione, e la perversità, del rinnegato Wang Jingwei, il cinese che volle farsi nemico del suo popolo.