Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  luglio 10 Lunedì calendario

Su "Tetti degni di un dio. Fantasie e delizie dell’architettura abitativa dei Romani" di Andrea Carandini e Paolo Carafa (Rizzoli)

Brevissimi commenti a voce dei due autori. Andrea Carandini: «Io stesso non immaginavo la quantità di tesori non ben valutati e che qui vengono raccolti, raccontati e documentati». Paolo Carafa: «Qui lo spazio è immaginato come un vero e proprio vassoio contenitore della conoscenza». Il loro più recente libro comune (Tetti degni di un dio. Fantasie e delizie dell’architettura abitativa dei Romani, in uscita domani da Rizzoli) è prima di tutto la testimonianza più viva ed eloquente di come una tradizione accademica possa diventare fertile scuola destinata a durare nel tempo, quasi una formula contro la crisi delle nostre università.

Vediamo come. Andrea Carandini, classe 1937, è professore emerito di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana alla Sapienza di Roma. A lui si devono fondamentali scavi a Roma, tra il Palatino e il Foro, durati decenni. Il suo ex allievo Paolo Carafa, classe 1963, da tempo a sua volta autorevole e maturo docente, è professore di Archeologia classica, di fatto al suo posto. Lavorano insieme da lunghissimi anni, allevando nuove generazioni di giovani archeologhe e archeologi. Il libro è il frutto di questo pluridecennale lavoro comune che ignora alla radice gelosie ed egoismi professionali, come scrive in incipit Carandini: «I giovani sono allievi dell’uomo maturo ma apprendono anche dal vecchio che fa loro da tutore nei fervidi duetti settimanali su Skype che durano spesso mezze giornate. Insieme ad altri docenti come Maria Teresa D’Alessio compongono tutti la manifattura tecnologica e culturale di un’archeologia esercitata parimenti sul terreno, in laboratorio e in biblioteca».

Le varie sezioni del libro portano la firma di questi nuovi ed emergenti nomi della scuola archeologica romana, ed è doveroso riportarli: Rosy Bianco, Sara Bossi, Matteo Cattaneo, Paolo De Paolis, Francesco De Stefano, Tommaso Della Seta, Nadia Filo, Mattia Ippoliti e Nicolò Squartini. Il risultato è che il Dipartimento di Scienze dell’antichità de La Sapienza è da tre anni consecutivi il primo al mondo nelle graduatorie universitarie per gli studi classici, secondo il report del World University Rankings. Ovviamente non è un caso, ed è facile capire perché: il sapere si tramanda con le nuove tecnologie e le banche dati in un clima di lavoro collettivo transgenerazionale.

E veniamo alle case dei Romani raccontate nel libro. Spesso autentiche regge che però così non si potevano chiamare, spiega Carandini «per il tabù che i romani avevano riguardo ai re che li avevano governati tra l’VIII e il VI secolo avanti Cristo». Quindi domus, al massimo Domus Aurea come quella quasi mitica di Nerone, mai Domus Regia. A proposito della Domus Aurea scopriamo, nella sezione del libro ad essa dedicata, che nel momento della sua massima espansione raggiungeva 371.877 metri quadrati. Sommata al Palatino e agli Horti di Mecenate, sempre di pertinenza imperiale, si raggiungono 639.290 metri quadrati, cioè un quarto della superficie racchiusa nelle antiche Mura Serviane: riprova matematica della megalomania neroniana.

Il volume è ben scandito nei contenuti. Carandini apre offrendo un quadro generale analitico e programmatico per aiutare il lettore nel viaggio: «La creatività architettonica dei Romani va colta nella mania sfrenata di costruire case trasformate in magioni, palazzi, residenze e ville… Le case e i palatia erano residenze urbane normali e speciali, mentre le villae erano strutture per definizione suburbane ed extraurbane libere dalle consuetudini del senso e del costume civici». Un’eccezione, racconta Carandini, è villa Adriana, villa-residenza imperiale «che ha anticipato Versailles». Carafa ci porta nell’universo delle grandi dimore del Lazio antico, a cavallo tra il possedere e produrre in campagna e il vivere in città ma con un limite ben preciso (il suo capitolo si conclude volutamente con la fine della Repubblica): i possedimenti, e quindi la conseguente ricchezza, non dovevano essere troppo vasti, «perché la vita rurale non si confaceva alla dignità di un cittadino». La severa sobrietà repubblicana.

Poi ecco il viaggio vero e proprio nei palazzi e nelle ville secondo i capitoli: Case e ville tradizionali; Case e ville palaziali; Ville e palazzi panoramici. Un ricco corredo di 128 tavole con piante e ricostruzioni aiuta nell’orientamento e nella comprensione: di grande chiarezza, solo per fare un esempio, la tavola 111 che sovrappone il futuro Anfiteatro Flavio, cioè il Colosseo, all’area occupata dalla Domus Aurea di Nerone sulla collina Velia. Ed ecco, scelte a caso tra le tante, le storie e le descrizioni della casa di Ottaviano sul Palatino, della villa di Augusto al porto di Capri, la celeberrima villa di Livia a Prima Porta con i suoi squisiti affreschi florali ora conservati al Museo Nazionale romano di Palazzo Massimo, la villa di Nerone e Adriano ad Anzio. Poi la villa dei Quintili lungo la via Appia, vero gioiello oggi parte del Parco dell’Appia Antica, esempio contemporaneo di come l’archeologia si possa sposare alla tutela ambientale e quindi alla protezione dell’Agro Romano, la villa dei Volusii a Lucus Feroniae.

Naturalmente, e doverosamente, i saperi archeologici si mescolano alle fonti che sostengono la ricerca. Quindi, sempre a proposito della citatissima Domus Aurea di Nerone, ecco Marziale che parla del Colosseo («qui dove risplendevano …gli odiosi atrii della reggia del feroce tiranno, e un solo palazzo occupava ormai tutta la città. Qui dove si erge la maestosa mole del grandioso anfiteatro, vi erano i laghi di Nerone…»).

Un metodo declinato da una scrittura sostanzialmente omogenea tra i diversi autori e molto chiara, certamente non per soli addetti ai lavori (come purtroppo accade frequentemente nell’archeologia, e non solo) che ci descrive atrii, biblioteche, loggiati, aree per la cenatio, vasche, discese per la spiaggia nel caso di ville marine e quindi rende i cosiddetti antichi Romani, invece, nostri sapienti, raffinatissimi contemporanei.