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 2023  luglio 10 Lunedì calendario

Intervista a Giorgio Armani

È


lo stilista dei bei modi e della buona educazione, l’unico capace si tradurre in moda le regole di comportamento che tutti dovremmo rispettare per vivere meglio, per essere civili con noi stessi e con gli altri, per ottenere quel che ci siamo prefissati senza fare del male a nessuno.


Giorgio Armani compie domani 89 anni, ne dimostra venti di meno grazie a uno stile di vita rigoroso e senza eccessi, raccoglie applausi e consensi unanimi ogni volta che fa qualcosa: dalle sfilate al basket, dalle divise per i nostri atleti alle Olimpiadi agli allestimenti floreali per la Prima della Scala. Insomma il più famoso designer del mondo, l’imprenditore italiano con più di 8.698 dipendenti nel mondo e un fatturato annuo di oltre 6,5 miliardi di euro (dati del 2022) è un uomo talmente speciale che ogni sua parola, gesto o decisione fa notizia.


In questa intervista esclusiva concessa a ridosso del suo compleanno e subito dopo le trionfali sfilate uomo di Milano e quella bellissima dell’alta moda di Parigi, proviamo a fare con lui il punto su un’oscura materia chiamata «politically correct».


Si riconosce ancora nella frase «la forma è la sostanza», che ha detto alcuni anni fa parlando di moda?


«Se possibile oggi mi ci riconosco ancora di più. Non può esserci forma senza sostanza. Non ho mai creduto agli esercizi di stile fini a se stessi, fatti di sola apparenza. In quasi 50 anni di carriera ho lavorato proprio su questo: un equilibrio tra aspetto e consistenza, tra bello e utile».


Ci si può educare al bello?


«È difficile, molto difficile. Credo sia un dono di natura che scopri col tempo e che coltivi tutta la vita».


Tom Ford diceva che un abito deve renderti così bello da scatenare in chi ti guarda il desiderio di togliertelo. La sua moda è più sensuale che sexy, ma si può fare a meno del sesso nella moda?


«Il sesso è senza dubbio una parte essenziale del gioco della moda. Ci si veste anche per sedurre. Personalmente miro a una seduzione più sottile ed efficace».


La questione di genere è letteralmente esplosa negli ultimi anni. Secondo lei è una moda oppure un problema reale? In tal caso, che soluzioni propone?


«Oggi la questione di genere suscita grandi dibattiti e scontri. Come designer io l’ho vissuta in prima persona agli inizi della mia carriera, quando le donne, per la prima volta nella storia, si affermavano sul posto di lavoro mentre gli uomini scoprivano un nuovo modo di esprimersi. Allora tutto appariva naturale e senza forzature: la moda, i cambiamenti sociali e l’evoluzione dei costumi erano una cosa sola. Poi nel corso del tempo molto è cambiato, anche il modo di affrontare temi importanti come questo. Non ho una soluzione, però penso sia necessario un lavoro più approfondito sull’effettiva parità dei sessi».


L’insegnante di una scuola privata femminile inglese è stata prima richiamata dalla direzione, poi sottoposta a procedimento disciplinare e infine licenziata per aver salutato una classe di studentesse undicenni con la frase «buongiorno ragazze». Sui giornali femminili italiani si scrive un generico model invece di modella/modello. Come giudica queste cose?


«Non ero a conoscenza dell’episodio inglese, mentre penso che la scelta italiana faccia parte dell’attuale diplomazia linguistica a cui non è sempre facile allinearsi, ma certo stimola e sensibilizza. Per quel che mi riguarda, sono più interessato alle persone».


Il Generale De Gaulle diceva «il y a une différence entre les hommes et les femmes: vive la différence». Lei che differenza vede tra uomini e donne umanamente e professionalmente?


«A parlare di differenze tra uomini e donne si rischia di scivolare nei cliché che non amo. Personalmente da sempre guardo prima agli individui e alle loro qualità che ai rispettivi caratteri di genere».


In tutti i settori le donne sono meno pagate degli uomini e hanno meno facilmente accesso ai ruoli apicali. Lei come si regola nella sua azienda?


«Posso dire con certezza che la moda è uno dei pochi campi in cui le donne ricoprono ruoli importanti e di grande responsabilità, per cui rivestono posizioni rilevanti ai vertici delle aziende. Nella mia, ad esempio, sono molte le persone di sesso femminile che rivestono ruoli apicali».


Ormai tutte le aziende internazionali hanno un ufficio che si occupa di vigilare sul rispetto del cosiddetto politically correct. Lei ce l’ha e nel caso su quali aspetti interviene o è intervenuto?


«In azienda ci sono delle persone esperte con cui affrontare temi sensibili cercando di prestare sempre più la dovuta attenzione alle evoluzioni linguistiche e alle nuove consapevolezze».


Ascolta sempre i consigli dei suoi esperti?


«Assolutamente, li ho assunti perché mi fido di loro. Poi a volte faccio di testa mia: ho raggiunto un’età in cui ci si può permettere di dire liberamente quel che si pensa».


Cosa ne pensa della cosiddetta «cancel culture», per cui vengono abbattute statue, bruciati libri e condannati personaggi storici come Cristoforo Colombo?


«Ritengo che rappresenti quel bisogno di ortodossia e di politicamente corretto che oggi caratterizza il pensiero generale. Forse una volta si sarebbe chiamato revisionismo storico. Ma a mio parere in questo ambito occorre più buonsenso».


Si dice che lo stato dell’esteta d’estate sia devastato perché con la scusa del caldo molti rinunciano all’aplomb. Cosa ne pensa?


«Purtroppo è vero: d’estate in città vedo per strada abiti improbabili. È un tripudio di bermuda e mise da spiaggia che mi lasciano perplesso. Lo dico da sempre: bisogna essere liberi di esprimere se stessi, mantenendo però una certa cura».


Anni fa una sua frase («il lusso mi fa schifo») fu riportata senza le opportune argomentazioni provocando un putiferio. In tempi più recenti è stata duramente criticata la sua scelta di far sfilare solo coppie binarie e non mischiate con coppie LGBT. Come vive queste critiche? Alla luce di quanto è successo, rifarebbe e ridirebbe le stesse cose?


«Le critiche e le controversie fanno parte del mio lavoro esattamente come il mio agire a volte in maniera istintiva. Le mie scelte non sono mai forzate e tantomeno ruffiane, nonostante la mia apparente freddezza. L’idea della sfilata dipende da un’immagine che mi aveva ispirato: un uomo e una donna che camminano sottobraccio. L’ho raccontata in passerella, tutto qui».


Sulle passerelle si vedono spesso modelle «oversize», a volte con abiti del tutto inadatti alla loro fisicità. Lei non l’ha mai fatto, eppure il suo è uno dei pochi marchi in cui si trovano tutte le taglie. Non pensa che l’inclusività nel mondo della moda sia solo un pretesto per attirare consensi?


«Come spesso accade, dietro alla comunicazione non c’è effettiva sostanza. Personalmente sono più interessato alla concretezza e alla coerenza che non al facile sensazionalismo da passerella. Certo mi rendo conto che oggi questo è un pensiero controcorrente. Per alcuni sono noioso, ma per i miei clienti sono una sicurezza».


Oggi al momento delle assunzioni bisogna pensare alle quote rosa, LGBT, afro, asiatiche, latine e via così. Lei pensa prima di tutto al talento, alla preparazione o al politically correct?


«Penso in primo luogo al talento. L’ho sempre fatto a prescindere da qualsiasi altra cosa. Nella mia azienda, però, ci sono diverse forme di inclusione, a cominciare dalla sensibilità verso qualsiasi tipo di differenza e all’attenzione che tutto questo sia sempre garantito».


Lo scrittore H. G. Wells, padre della fantascienza, ha detto che il futuro sarà una gara tra l’educazione e la catastrofe. Non pensa che basterebbe essere bene educati?


«Penso che la storia sia maestra di vita. Soltanto il sapere ci può salvare: la buona educazione ne è l’espressione principale».