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 2023  luglio 10 Lunedì calendario

Ritratto al veleno di Vittorio Sgarbi

Fino all’età di due anni la madre di Vittorio Sgarbi  la Rina, figura mitologica, ircocervo fra Artemisia Gentileschi e Elena Fabrizi - pensava che suo figlio avesse dei problemi perché taceva sempre. Poi lui si è abbondantemente rifatto. Non sembra, ma è dai neotelevisivi anni Ottanta che lo ascoltiamo in radio, alla tele, a teatro, sui giornali, su Facebook, in Rete, in un flusso perenne di parole, urla, spiegazioni, polemiche, scatti di genio e di ira, un rumore domestico di sottofondo, una consuetudine familiare, Sgarbi come uno di famiglia che ti parla da ovunque, non sai neppure più in quale trasmissione, non sai a proposito di cosa, non sai perché. Cominciò a urlare quando eravamo all’università, forse prima. Lei mi parla ancora. Ma lui non ha mai smesso.


Vittorio Sgarbi non ha mai smesso di strillare e litigare, di presidiare la tv e presenziare in Parlamento, di andare su e giù per il patrimonio artistico italiano, partendo dalla Bassa - le gite sul Po, le balere, l’anguria e i pessimi Extraliscio  una vita come una biglia da flipper che rimbalza fra mostre d’arte e nuovi mostri, feste, vernissage, studi tv, scopate all’impiedi, risse, vera poesia e falsi Modigliani, capre, expertise, attacchi a testa bassa e tacchi alti da maiale, giorni a mangiare male e notti a dormire peggio, letti sfatti, libri letti, quelli scritti, tribunali e festivàl. Domanda: Sgarbi ha speso più in quadri o in querele?


Il quadro è quello. Vittorio Umberto Antonio Maria Sgarbi  Umberto come Boccioni, per il quale pure non impazzisce, Antonio come il matto Ligabue, Maria come le sue mille Madonne, sante di giorno, Maddalene di notte  è uomo facile da dipingere. Nutrito da una maleducazione patologica, allevato in un narcisismo imbarazzante, di un’aggressività intollerabile, una spropositata fiducia in se stesso, persino più di Tomaso Montanari, individualista metodologico, anaffettivo fuori la cerchia stretta dei famigli, senza una gerarchia dell’amicizia - sono tutti suoi amici e alla fine non lo è nessuno - a lui tutto è concesso. Ritardi, collere, insulti, parolacce, provocazioni, il pretendere che ti aprano i musei alle tre di notte, il chiamarti sul cellulare alle quattro del mattino, recensire le proprie mostre, l’entrare a casa degli altri come se fosse la tua e aprire la tua alle Iene che ti inseguono nel cesso, donne prese e esposte come in un padiglione della Biennale, figli fatti e lasciati per i fatti loro, telefonate perenni in viva voce e la vita come un estenuante tentativo di scappare dal pensiero della morte.


Una vita come opera d’arte, per l’arte, con l’arte, Vittorio Sgarbi (uno portato alle trasgressioni dalle proibizioni e che si proibisce tutto tranne la trasgressione: non fuma, non si droga, beve solo Lambrusco) di arte sa tutto, da Cimabue a Morandi, mentre quella contemporanea non è vero che non la conosce, gli fa semplicemente schifo. È il resto il problema. In filosofia si è laureato ma ha smesso di studiarla, il cinema lo annoia, lo moda è fatta solo di mocassini e giacche blu, del cibo gli frega nulla - come dice un celebre chef «trangugia tutto in sei minuti e non distingue cosa è buono e cosa no»  di politica si picca di capire tutto ma non azzecca un’alleanza e confonde la pratica di governo con l’accumulo di cariche, inizia mille battaglie (oggi per i musei gratis, ieri contro l’abbattimento di una villa liberty, una settimana fa contro il bando per il Padiglione Italia, domani per spostare una Pietà, ma alla fine non ne conclude una) e di televisione ne sa ancora meno. Ospite perfetto, la sa sfruttare. Conduttore pessimo, non la sa fare. Leggendario il naufragio della trasmissione Ci tocca anche Vittorio Sgarbi, 8% in prima serata Rai, chiusa alla prima puntata, stagione di scarsa grazia 2011.


E così ci è toccato Vittorio Sgarbi, da quando, tanti programmi fa, al circo del Costanzo Show, disse a una professorina che le sue poesie erano una merda e lei una stronza. Dovette pagare 40 milioni di lire ma fu l’investimento più azzeccato per una carriera mediatica formidabile, fra trash, eccessi, scandali, Osanna, Crucifige, standing ovation e cupio dissolvi. Quando augurò la morte a Federico Zeri e poi, morto davvero, pianse. Quando fu scaricato per intemperanza come sottosegretario dal ministro Giuliano Urbani, e oggi rischia la stessa cosa con Sangiuliano. Quando voleva infilare nel cul* il tapiro di merda a Vittorio Staffelli. Quando definì Oscar Luigi Scalfaro «una scoreggia fritta», il Trio Medusa dei «culattoni raccomandati» e gli elettori veneti «delle teste di cazzo». Quando voleva pisciare in testa a Giuseppe Cruciani. Quando mandò a fare in culo Barbara D’Urso, «Falsa!», e noi rivedemmo la clip in loop ottanta volte, tante quante i Capricci di Goya. Quando disse a Marco Travaglio «Siamo un grande Paese con un pezzo di merda come te» e il Tribunale lo condannò a pagare 30mila euro e lui si corresse: «Travaglio non è un pezzo di merda: è una merda tutta intera», e la condanna raddoppiò: 65mila, e forse è lì che Sgarbi pensò «Sono un mito».


E adesso ci scandalizziamo - partecipazione a titolo personale sì, ruolo istituzionale no - se dice in pubblico scop*re, cazz* e al maxximo troi*... Come direbbe lui, «Vai a fare in culo».


Vittorio Sgarbi, da Ferrara, Fràra, ducato di nobili, di Cosmè Tura, cappellacci alla zucca e bestemmie sublimi, è da una vita che usa e abusa del linguaggio in tutte le sfumature, dall’empireo al Kitsch. Adora tutte le parole (a parte «carriera» e «pensione», che gli fanno schifo) e del resto, puer aeternus, ha cominciato così... cacca, culo, pipì, e non ha mai smesso.


In fondo la sua insostenibile coprolalia, il vivere in un tempo proprio in perenne ritardo, l’assoluta mancanza di rispetto per gli altri e per se stesso, la scenografica misoginia, il perverso godere nel far litigare chi lo circonda, il suo bisogno di essere sempre chiamato sul proscenio e il suo gusto per l’osceno, il rifiuto della vita adulta fatta di regole e compromessi, eterno putto raffaellesco, insomma tutto ciò che lo fa essere personaggio, tutti i suoi atteggiamenti inaccettabili, dipendono, ecco il punto, da una totale assenza di ipocrisia - hypokrisía, simulare per essere apprezzati dagli altri - che, alla fine, è il suo pregio più alto. E il motivo per cui lo si ama.


Amato quanto odiato, ormai 71 anni, figlio di una madre marescialla e un padre scrittore per interposto ghostwriter, una sorella ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, mille donne idealizzate più che conquistate, una fidanzata storica, Sabrina Colle, la più affascinante di tutte, che se l’è preso quando era giovane, bello, ricco, famoso, e questo è facile, e se l’è tenuto ora che è vecchio, malato, ingobbito e pieno di querele, e questo è vero amore, un tumore alla prostata, un cuore debole, quattro stent, milioni di chilometri percorsi (è stato a Treviso 256 volte, e riesce a trovare una bellezza anche a Pietrabbondante, in provincia di Isernia, Molise), una serie impressionante di incidenti, risse, affogamenti scampati, infarti superati (ha rischiato di morire a Roncobilaccio, e non era il caso), un corpo martirizzato da ritmi di vita infami che forse è la sublimazione della body art, una sconcertante capacità di circondarsi, fra le migliaia di amici che ha, sempre dei peggiori (il morboso rapporto ego-erotico con Morgan, la stima mal riposta in Oliviero Toscani, gli agenti sanguisuga, la carovana di artisti scalcagnati, trans, zoccole e parassiti), Vittorio Sgarbi è intollerabile, insostenibile, insopportabile per tutti quei difetti che alla fine sono figli di una profonda, vulnerabile umanità.


Per usare il lessico raffinato della più alta e longhiana critica d’arte, molti dicono che Vittorio «è un amico» (è la premessa) «e per questo gli diciamo che è uno stronzo». Noi invece pensiamo che Vittorio (è la premessa) sia uno stronzo. E per questo gli siamo amici.


«Vecchio mio».