Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  luglio 09 Domenica calendario

Intervista ad Anthony Horowitz - su "Detective in cerca d’autore" (Rizzoli)

Che cosa succede quando un autore di gialli diventa uno dei protagonisti dei suoi stessi libri? Con oltre cinquanta opere al suo attivo, Anthony Horowitz è uno dei più prolifici e poliedrici scrittori britannici: ha firmato saghe per ragazzi, i seguiti (autorizzati) delle avventure di Sherlock Holmes e James Bond, serie tv come Poirot e L’ispettore Barnaby. Adesso arriva in Italia Detective in cerca d’autore, il primo volume delle indagini dell’investigatore Daniel Hawthorne, che è coadiuvato da nient’altri che.. Anthony Horowitz.

Come e perché ha deciso di inserire sé stesso come personaggio dei suoi libri?

«Il mio editore mi ha chiesto di scrivere una serie di gialli e la mia prima domanda è stata: chi è il detective? È britannico o di un altro Paese? È alto o basso, grasso o magro, ricco o povero, ha fobie, problemi con il bere? Poi ho cominciato a pensare non al detective ma alla spalla, il Watson della situazione: e mi è venuto in mente che se avessi fatto di me stesso la spalla, sarei passato dall’essere la persona più intelligente nel libro — perché lo scrittore sa tutto, sa chi è l’assassino prima dell’assassino — a essere la persona meno intelligente. Questo avrebbe rovesciato il giallo da capo a piedi: se il detective non avesse risolto il crimine, non avrei avuto neppure il mio libro. Mi ha fatto sorridere l’avvicinarmi a un genere ben noto e fare qualcosa che non era mai stata fatta prima».

È una specie di autofiction, come va di moda adesso, ma è anche meta-letteratura. C’è qualcosa di più che cerca di dirci, al di là del giallo?

«Assolutamente. Ho cominciato a sperimentare modi diversi di usare il giallo, come qualcosa di più interessante. Non si tratta di autofiction, perché questi libri non sono su di me, ma ciò che mi piace è la metafiction: perché leggiamo i thriller? Perché un omicidio in strada o in Ucraina è disgustoso e orribile ma nel mondo di Agatha Christie è intrattenimento? È l’intera natura di vita, morte e letteratura e di come noi ce la caviamo in essa: è l’opportunità di fare qualcosa di più che non siano soltanto indizi, sospettati e soluzione».

I suoi libri sono quindi una finestra per esplorare che cosa c’è dietro le storie di detective: chiamano a diversi livelli di lettura.

«Esattamente. Quello che mi importa è che siano comunque buoni gialli, ma non mi piace fare le cose alla vecchia maniera, ripetitiva e alla fine noiosa».

Quanto il suo personaggio è diverso dallo Horowitz reale?

«Tutti gli scrittori devono avere una identità separata. Vai a un festival letterario e ti fanno domande alle quali non ci sono risposte: e allora inventi una sorta di avatar, e l’avatar risponde alle domande in un modo soddisfacente. In questi libri ho creato un avatar, apprendi poco di me e della mia vita, ma tutto ciò che scrivo nel libro di me e della mia vita è vero».

La differenza fra i gialli e la vita è che nei primi c’è la soluzione del mistero, nel mondo reale spesso la soluzione non c’è.

«È ciò che mi affascina. I gialli riflettono il fatto che viviamo in un mondo in cui, nonostante la rivoluzione dell’informazione, abbiamo meno informazione di prima, perché viviamo in un mondo di post-verità, di notizie 24 ore su 24 dove la verità cambia ogni minuto, dove non puoi credere a nulla di cui ti viene detto: credo che la soddisfazione nel leggere un giallo è che solo lì trovi la verità assoluta. Alla fine di un giallo sai tutto, sai ciò che ogni personaggio stava pensando o facendo, sai chi è l’assassino: il mondo in un giallo è sempre tale che si parte in difficoltà, dove tutti sono sospettati, dove c’è sangue e paura, e si finisce sempre con la felicità, con una conclusione, con la soddisfazione. Il detective lascia sempre un mondo risanato dietro di sé: questa soddisfazione è molto preziosa per noi a causa dei tempi in cui viviamo».

I suoi gialli sono una ricerca della salvezza?

«Sono una ricerca della verità».

Quanto è stato difficile scrivere i seguiti delle storie di Sherlock Holmes e James Bond e quanto diversi sono i suoi libri dagli originali?

«Non è stato difficile: se scrivere è difficile, significa che c’è qualcosa che non va. Cerco la facilità, la scorrevolezza, se fisso la pagina bianca e mi gratto la testa vuol dire che c’è qualcosa di sbagliato. La sfida principale è stata quella di emulare, cercando di scrivere nello stile di due dei più grandi scrittori di tutti i tempi, che erano molto più bravi di me e con fan in tutto il mondo. Quindi la sfida era di essere all’altezza, di cercare di capire perché i loro libri sono così buoni, e soprattutto non scrivere niente che offendesse i fan di quei due scrittori. Spero che non ci sia quasi nessuna differenza fra i miei libri e gli originali: uso il linguaggio, il mondo e i personaggi di Conan Doyle, ma la storia è moderna, non è una storia che Doyle avrebbe potuto scrivere. Nel caso di Bond, mi piace pensare che sono libri che Ian Fleming avrebbe potuto scrivere: il segreto è cercare di essere al 100% lo stesso ma fare qualcosa allo stesso tempo di originale e diverso».

Il Bond dei libri di Fleming ha spesso atteggiamenti, in particolare verso le donne, che oggi sarebbero considerati problematici: si è autocensurato?

«Ora ogni scrittore deve avere una voce che gli sussurra all’orecchio: è uno degli aspetti più tristi dello scrivere oggi, devi sempre guardarti alle spalle. Ma non dovrebbe essere così, lo scrittore dovrebbe essere libero di fare esattamente ciò che vuole: magari accettarne le conseguenze, ma quelle conseguenze non dovrebbero essere violente, non dovrebbero essere così negative, distruttive, perché gli scrittori dovrebbero indicare come stiamo al mondo, non essere intimiditi da esso. Allo stesso tempo io non sono Dostoevskij, non sono un grande scrittore, sono un intrattenitore: perché dovrei far dispiacere le persone senza necessità, perché dovrei scrivere cose che oggi incontrano disapprovazione? Non sono stupido, devo prestare attenzione a come è il mondo: e certe cose non sono più accettabili».

Dunque gli scrittori oggi sono meno liberi?

«No, ma le conseguenze della libertà sono molto più pericolose e spiacevoli».