La Stampa, 9 luglio 2023
Intervista a Giuseppe De Rita
L’analisi che ti aspetti è facile: Paese impoverito e diseguaglianze esplose significano rischio di tensioni sociali e terreno fertile per i populismi. Giuseppe De Rita, il sociologo fondatore del Censis che tra pochi giorni festeggerà 91 anni tutti passati a studiare gli italiani, spezza l’assioma: «Per arrabbiarsi serve una delusione, ma qui non abbiamo alcun sogno da molti anni. Ognuno cerca solo di arrangiarsi e proteggere il proprio orticello. È un momento di grande stasi: dopo il periodo dei vaffa, è l’ora della bonaccia meloniana».
Per lei siamo «il solito Paese dei frammenti». Perché?
«L’Italia storicamente sfugge a grandi analisi di sistema, siamo milioni di frammenti abituati a fare da sé fregandosene abbastanza di tutto il resto. Prima di immaginare conseguenze sociali o politiche dell’impoverimento del Paese bisognerebbe capire bene quanti davvero stanno peggio. Io non credo siano davvero così tanti, si sottovaluta tutto ciò che sta sotto alle macro-teorie».
Ma i numeri parlano chiaro: rate non pagate per 15 miliardi, risparmi bruciati dall’inflazione per 90 miliardi, i salari peggiori d’Europa, giovani e donne tenuti fuori dal mercato del lavoro.
«Il tema delle diseguaglianze è spesso trattato in modo molto ideologico, dimenticando che nessuna fase di transizione sfugge alla legge che lo sviluppo non è mai equilibrato. Il talento degli italiani si è sempre manifestato nella capacità di adattarsi ai nuovi contesti. Fosse anche solo con i “lavoretti” che pure oggi deprechiamo, perché non creano ricchezza collettiva e tutelano poco. Ma che per molti sono un orizzonte “normale"».
Un po’ triste immaginare che la ricetta debba essere arrangiarsi.
«Il sistema è disordinato e non premia il merito: questo è senz’altro un enorme problema, non lo voglio negare ovviamente. Quella dell’arrangiamento continuato è una dinamica che ricorda Paesi poco sviluppati. Ma esiste e, a suo modo, ha sempre funzionato. Escluderla dalla lettura dell’Italia sarebbe sbagliato».
Non c’è una soglia oltre la quale l’italiano impoverito si arrabbia?
«Sarò il solito ottimista beota, ma oggi non vedo questo rischio. Per trasformarsi in rabbia politica il disagio sociale ha bisogno di qualcosa in più del conto corrente che si alleggerisce. Il laureato che finisce a fare il rider o l’impiegato che lascia il lavoro per vivere più tranquillo forse risultano impoveriti nelle analisi economiche e sociologiche, ma probabilmente non ha una grande visione che risulti tradita: semplicemente il suo orizzonte è diventato quello. L’unico momento in cui abbiamo visto esplodere il rancore è stato con il successo del Movimento 5 Stelle e non a caso era legato ad una serie di tradimenti».
Cioè?
«Era la rabbia che seguiva il lutto per tutto quello che si era sognato e non si era avuto: un matrimonio come quello dei nonni, una carriera, i soldi. Da lì il vaffa. Che poi non ha retto perché l’errore di chi ha cavalcato quella fase populista è stato non capire che alla lunga il sentire degli italiani li porta a non voler rompere le relazioni, ma usarle per sistemare il proprio orticello».
Anche ora i populisti vincono.
«Non credo, la destra di Meloni lo è solo parzialmente. Gli italiani si sono stufati in fretta del populismo, perché hanno il loro piccolo frammento di Paese da curare e a quello pensano. Per questo parlo di bonaccia meloniana: una fase di ritiro dopo quella del rancore, in cui viene premiato chi chiude il recinto e ci dice di stare sicuri e protetti nelle nostre reti e nel nostro cortile di casa».
Tutto questo però non combatte la povertà e le diseguaglianze, anzi.
«Non ne ha nemmeno l’ambizione. E infatti Meloni non si agita su questi temi, ma solo su scontri di potere: con la magistratura, l’Europa, la Bce. È tutto sovrastrutturale, lontano dalla vita degli italiani. Non c’è populismo nel prendersela con Lagarde: sarà pure antipatica, ma attaccandola non si crea elettricità o connessione con chi non riesce a pagare il mutuo. Nessuno può arrabbiarsi con realtà così distanti». —