la Repubblica, 9 luglio 2023
Quando le colpe dei figli ricadono sui padri potenti
I figli sono la benedizione di Dio, i figli sono la Provvidenza, i figli so’ piezz’ ‘e core. Però anche: chi non ha figlioli non ha né pene né duoli, figlioli e guai non mancano mai. Si trova la più vasta e contraddittoria gamma di proverbi in tema nel benemerito dizionario di Carlo Lapucci (Mondadori, 2007), compreso il motto secondo cui i figli scontano le colpe dei padri, vedi le malattie ereditarie, la cattiva fama e la perdita del patrimonio, come accade fin dai tempi della Tragedia greca e della Bibbia – anche se lì nessun genitore risulta aver colpevolmente battezzato i propri figli Geronimo, Cochis e Apache.
Vero è che anche Umberto Bossi, chiamando gli ultimi suoi due innocenti Roberto Libertà ed Eridano Sirio, qualche rischio se l’è assunto; anche se i guai più seri gli sono arrivati a causa di Renzo, detto il Trota, catapultato in politica con un eccesso di capricci suoi e di chi lo proteggeva. Ma al di là delle lauree albanesi e della fantasia onomastica è pur vero, anzi è verissimo che anche le colpe dei figli ricadono sui padri, tanto più, viene da pensare, quando questi ultimi sono potenti e fin troppo felici di esserlo, e allora sul più bello, al culmine dell’arroganza e della vanità: zòt, ecco il fulmine del figlio che ti inguaia e ti sistema per le feste.
Su questo Ignazio La Russa potrà utilmente confrontarsi, magari a cena o anche solo per un caffè, con Beppe Grillo, gemello di disgrazia filiale senza più limiti di schieramento. Può suonare lievemente ironico, ma più che la politica c’entra la vita e il destino; e se in questi ultimi due casi si tratta di vicende tristi e drammatiche, è pur vero che il Presidente del Senato e l’Elevato del Vaffa la loro bella passeggiata nella storia patria se la sono fatta, e forse pure troppo, mentre Ciro e Leonardo Apache, per come sono messi a poco più di vent’anni, vai a sapere.
Del resto, per restare ai reciproci riferimenti ideologici, anche il duce e Rousseau non risultano essere stati i migliori padri. Ma la questione delle questioni è che nel selvaggio campo della politica e del potere il disastro paterno prescinde dal merito e spesso anche dalla verità dei fatti; anche se non dai pregiudizi, dai sospetti, in talune circostanze anche dagli agguati e comunque dalle strumentalizzazioni.
In questo senso l’esempio primigenio va recuperato nell’affare Montesi (1954 e seguenti), antenato e modello di tutti gli scandali d’età repubblicana; allorché durante successione di De Gasperi la carriera di Attilio Piccioni, segretario dc del 18 aprile, venne bloccata e stroncata perché ilfiglio Piero, che componeva musica jazz e aveva una relazione con Alida Valli, finì in galera per la morte della povera Wilma (Montesi, appunto) senza che alcuno abbia mai dimostrato che avesse conosciuto quella giovane e sventuratissima donna.
Secondo caso, anche più crudele e lacerante, quello di Marco Donat Cattin, figlio di Carlo, influente ministro, di cui nella primavera del 1980 in modo abbastanza avventuroso si venne a sapere che non solo aveva parte attiva nel terrorismo (Prima linea, uno dei gruppi più sanguinari), ma che il governo guidato da Cossiga avrebbe fatto in modo di farlo scappare all’estero. La storia è ovviamente più intricata anche perché c’era chi da tempo sapeva e taceva, o aspettava il momento giusto; ma di sicuro, oltre a dimettersi, Carlo Donat Cattin smise di essere figura chiave della nuova maggioranza Dc.
Dopo di che, nel paese del familismo amorale, si potrebbe compilare un lungo elenco di più lievi traversie causate da figli discoli o potenzialmente nocivi. Con l’avvertenza che non è possibile né giusto fare di tutt’erba un fascio; mentre su di un altro piano è forse utile riconoscere che il ruolo di figli di padri e madri ingombranti, se qualche vantaggio materiale procura, è spesso scomodo, faticoso e tale da spingere a compiere qualche scemenza in più. Si aggiunga il fatto che, in quel campo di veleni e trabocchetti, la famiglia si colloca nell’area della vulnerabilità dell’uomo o della donna impegnati in politica, che cento occhi stanno addosso ai figli della gente che conta e che la crescente disponibilità di mezzi tecnologici aumenta a dismisura i rischi.
Se ne può chiedere conferma, per quanto riguarda la Prima Repubblica, ai figli del presidente Leone (“i tre monelli” delle intemerate di Mino Pecorelli e del libro di Camilla Cederna); così come ai figli di Ciriaco De Mita e a quelli di Bettino Craxi. Rispetto alla Seconda, tenendosi prudentemente sul vago e per pura vocazione documentaria gli osservatori più diligenti hanno trovato traccia di: raccomandazioni telefoniche eseguite dal figlio del celebre e severissimo Pm divenuto politico; euforiche frequentazioni di figlie di magnati (con costoso acquisto di relative foto); singolari esuberanze edilizie ispirate a super eroi e altre stranezze da parte di figlio di alte cariche municipali; raid menacciuti di ulteriore figlio di sindaco. Si omettono i nomi con la più viva speranza che abbiano tutti messo la testa a posto. Si raccomanda infine un supplemento di riflessione su un breve e simpatico adagio, pure estratto dall’inesauribile giacimento della sapienza popolare: trulli trulli, chi li fa se li trastulli.