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 2023  luglio 09 Domenica calendario

Intervista a Claudio Rugafiori

Il «mitico Rugafiori», esclamò Italo Calvino quando Giorgio Agamben gli fece per la prima volta il suo nome. Lo stesso Agamben lo definisce la sola persona che abbia esercitato per lui «la funzione di un maestro», precisando: «Forse perché era il solo che non sembrava venire da nessuna parte né andare in alcun luogo». Il mitico Claudio Rugafiori, figura riservata quanto leggendaria dell’editoria, abita in un paesotto del parco piemontese del Ticino. Da lì, continua la sua consulenza per Adelphi, membro del consiglio di amministrazione voluto da Roberto Calasso pochi mesi prima della morte, consiglia, legge, traduce, commenta. Condivide con il suo amico di gioventù Bobi Bazlen il fatto di non aver mai scritto un libro in proprio, nonostante la cultura e gli interessi mostruosi. Con Luciano Foà e con Bobi, giovanissimo ha gettato le basi dell’Adelphi, dandole una sua impronta soprattutto per le aperture verso le culture asiatiche. Fu lui nel ’62 a suggerire a Foà il simbolo della nuova casa editrice, un ideogramma dell’antica Cina scovato in un libro del sinologo tedesco Carl Hentze.
La sua riservatezza è pressoché impenetrabile, ma il recente studio di Anna Ferrando sulle origini dell’Adelphi (Carocci) si avvale di alcune sue testimonianze dirette. Nato nel 1938 in Eritrea, arrivato a Milano dal 1952, Rugafiori entrò nella redazione della rivista «Il Verri» di Anceschi, attorno alla quale si sarebbe coagulata la neoavanguardia. Negli anni Settanta risiede per lo più a Parigi senza perdere il filo diretto con l’Adelphi. È sorprendente, nel 1981, il passaggio all’Einaudi, come braccio destro dell’editore, ma lascia ben presto Torino per tornare all’ovile dell’amico Calasso. Nell’«immensa savana del suo sapere» (sempre Agamben) si contano, tra l’altro, studi, traduzioni e curatele dei protagonisti dell’avanguardia francese, Antonin Artaud, René Daumal, Alfred Jarry, un saggio sui Riti di caccia dei popoli siberiani e una prefazione a un libro di Alfred Salmony sull’antico simbolismo cinese. Sarebbe stato meglio incontrarlo nel Novarese, come previsto, invece lo scambio, la sua prima intervista, è avvenuto a distanza. Eccolo.
Claudio Rugafiori, Calasso ricorda che Bobi Bazlen vi chiamava i due «mutanti». A che cosa si deve quel soprannome?
«Fu Sergio Solmi, autore di una memorabile antologia della fantascienza, ad attribuirmi le tre sillabe perché leggevo a velocità supersonica e restava il succo. Lo disse a Bazlen e l’applicò a Calasso. Diventammo così i mutanti e così ci chiamavano Foà e Bazlen, quando si dissentiva. Una cosa ci accomunava, la velocità di pensiero, il fatto di sentirci sulla stessa onda. Con la scomparsa di Bazlen, nel 1965, ci siamo trovati ancora più vicini, decisi a portare avanti le cose in un contesto non tanto semplice. Vittime della geografia, ci siamo staccati solo apparentemente per qualche anno. Ci siamo ritrovati a pieno nella metà degli anni Ottanta».
Come descriverebbe Calasso?
«Calasso era tre fuochi, come nel rituale vedico: quello del ricercatore, quello dello scrittore, quello dell’editore. Un unicum. Era un occhio d’aquila, che si affaccia all’illimitato e di questo illimitato isola i dettagli decisivi intorno ai quali tesse le storie. È stata la persona con cui ho passato più tempo al telefono. Anche a due giorni dalla sua morte ci intrattenevamo su alcuni punti di Sotto gli occhi dell’Agnello (il libro uscito postumo nel 2022 ndr)».
Quando vi siete conosciuti con Bazlen?
«Fu ancora Sergio Solmi, al nostro secondo incontro, a parlare di Bobi Bazlen. L’ho conosciuto a Roma. Ci ritrovammo poco dopo per qualche giorno in una raffinata locanda nel trevigiano (alla richiesta di una carne alla griglia mi fu chiesto: “Su quale legno?”). Fu l’inizio di tutto. Adelphi era ancora in mente Dei. Ho sotto gli occhi una cartolina: “Oggi i tuoi due libri – grazie – hai fatto molto bene... Però hai fatto male a non venire a Wimbledon – la casa e il giardino ideali per chiacchierare, con pub con un bellissimo prato a cinque minuti, ideale per continuare a chiacchierare dopo le sei. In ogni modo ci rivedremo presto». (Wimbledon è il sobborgo di Londra in cui Bazlen risiedeva saltuariamente ndr).
Chi era Bazlen fuori dalla mitografia che spesso lo accompagna?
«Su Bazlen, così come su Adelphi, si sono dette le più proverbiali inesattezze. Una buona guida per aver accesso alla persona Bobi resta la sua Lotta con la macchina da scrivere, 31 fogli battuti spericolatamente a macchina che ci offrono un suo involontario autoritratto giovanile, l’unico rimasto. Io mi limiterò alla cronaca dei suoi ultimi giorni. In una Milano molto calda e semideserta alla fine di luglio (Foà partito con la famiglia al mare), Bobi, ormai staccato dai libri, seguiva il tao. Abbiamo passato cinque giorni insieme e soli a vagabondare. Il quinto giorno verso mezzanotte lo accompagnai all’ascensore dell’albergo, il Torino. Dovevamo ritrovarci l’indomani alle nove, lo trovai all’obitorio di piazzale Gorini. Secondo il medico legale era morto intorno all’una e trenta. La cameriera che lo trovò mi disse che aveva una gamba fuori dal letto. Si era realizzato il passo, quello del tao. Il passo di Yu».
Quando avete parlato per la prima volta di Adelphi? E in cosa consisteva l’affinità culturale che vi ha uniti sotto quell’idea?
«Quando Bazlen mi presentò a Foà. Le prime riunioni di lavoro, Bazlen Foà Rugafiori, avvenivano a casa sua intorno al tavolo della sala da pranzo. Dopo qualche mese vi fu la sede di via Morigi a Milano. Un piano terra con giardino, vasto e vuoto, solo mobili. Lì si trovavano Donata Usiglio (segretaria di Foà ndr) e Luciano Foà ai loro tavoli e io sballottolavo dall’uno all’altro. Bazlen veniva di frequente per tre o quattro giorni, poi c’erano i visitatori. I più cari: Solmi e Gianni Antonini. Tengo a precisare che il nome Adelphi, portato da Foà una mattina in casa editrice e subito approvato da Bazlen, proviene dalla toponomastica di Londra e nulla aveva a che vedere, almeno all’inizio, con gli adelphoi, i sodali. Poi la parola greca prese il sopravvento, applicandosi a ognuno di noi».
Che ruolo ebbe Foà?
«Va detto che senza la sua tenacia non avrebbe preso forma l’Adelphi. Venendo dall’Einaudi aveva accumulato ogni forma di esperienza e capì che unendo i libri unici di Bazlen alle opere complete di Nietzsche con Giorgio Colli avrebbe costruito un saldo principio. Va però anche detto che la Einaudi non respinse le opere di Nietzsche, ma le Opere complete di Nietzsche proprio in quanto complete. Giulio Einaudi non sopportava l’idea, la considerava la bara di un autore. Questo lo avvicinava a Bazlen più di quanto possa sembrare. Ma se questa vicinanza avesse avuto modo di manifestarsi, non sarebbe nata Adelphi».
Che cosa studiava e leggeva a quei tempi?
«Già da bambino ero attratto da una nebulosa, l’Asia, e leggevo di tutto. Arrivato a Milano presto scoprii tre interessanti biblioteche, la Sormani che prestava libri, la Braidense dove si potevano vedere gli Acta Eruditorum di Leibniz, la Trivulziana con il fondo Morando ricchissimo di opere sulla magia. Poi c’erano gli istituti di cultura stranieri, che prestavano. Venendo agli studi un’opera fu catalizzante, La storia dell’antichità di Eduard Meyer. Capii la provvisorietà di ogni ricerca storica e che senza i Persiani non si poteva capire la Grecia. Ma chi più contò per me fu Paul Mus. Mi dette un consiglio: imparare l’arabo, il sanscrito, il cinese. Lo presi alla lettera, ma con l’arabo ebbi dei problemi, occupava troppo la mente, allora biforcai verso il persiano trovando Henry Corbin. E così, diversamente, per il sanscrito e il cinese».
In lei ha prevalso la cultura orientale?
«Sì, per questo stavo il più possibile a Parigi. La scuola vedica tra le prime al mondo con Louis Renou e il successore Charles Malamoud, mi occupava molto. E così il cinese. Andavo almeno tre volte a settimana a casa di Marcel Granet ai bordi del Parc de Sceaux dove nel suo studio leggevo i classici cinesi da lui annotati. Momenti indimenticabili».
Jarry, Artaud, Daumal. Da dove viene l’interesse per la Francia surrealista?
Italo Calvino si fidava di me
Mi dava prima i suoi libri da leggere
e per tre volte mi coinvolse. Con
Elsa Morante funzionò subito
«Non ho mai considerato la letteratura francese come una cosa a sé. Foà metteva tutti alla traduzione con la prospettiva di raggiungere l’ottimo. Un assioma che tuttora perdura. Tradussi Jarry per poterlo promuovere “classico” nella collana di Adelphi (e non successe). Artaud fu oggetto di una disputa con Bobi. Non volevamo lo stesso libro, alla fine venimmo a patti. Poi arriva Daumal. Fu un incontro determinante, mi accompagna ancora. Il Monte Analogo resta certamente uno degli esempi più perfetti di “libro unico”, ma il vero fuoco di Daumal per me era la parte indianistica, che mi dette molto da fare. Compimento di questo lungo lavoro fu il libro che avrebbe potuto chiamarsi La saggezza indiana e invece si chiamò Lanciato dal pensiero – parole vediche, essendo gli dèi e il pensiero l’unico antidoto per l’uomo diminuito, ridotto, dell’oggi».
Come mai dall’inizio degli anni Ottanta si è ritrovato all’Einaudi, una casa editrice concorrente sul piano culturale e molto diversa sul piano organizzativo?
«Non fu una decisione prestabilita, una domenica mattina a Parigi mi telefonò Einaudi. Ci vedemmo nel pomeriggio, mi propose una consulenza da lontano. Così cominciò l’avventura che divenne intensa e impegnativa».
Quali furono i suoi rapporti con Giulio?
«I rapporti con Einaudi furono molto stretti. Li descriverò con la planimetria. L’ufficio di Einaudi, una grande stanza d’angolo, alla sinistra l’ufficietto di Calvino (che però veniva una volta al mese e non sempre), alla destra un salottino con una fila di bellissime sedie mai utilizzate. Accanto, un locale molto luminoso con magnifici Schifano alle pareti, dove stavo con Enrica Melossi, sublime iconografa, e Eileen Romano, stagista fresca di studi. Desiderio di Einaudi era che mi insediassi nel salottino, cosa che non volevo fare. Preferivo la stanza che occupavo perché vicino c’erano le scale».
Foà parlò di lei a Einaudi come dell’eminenza grigia per eccellenza. Lei si considera un’eminenza grigia dell’editoria?
«Penso che Foà volesse ironizzare. A Einaudi si attribuivano molte eminenze grigie o molti si consideravano tali».
All’Einaudi lei ebbe un rapporto di amicizia e di stima particolare con Calvino?
«Non fu all’Einaudi ma a Parigi che ci vedevamo. Calvino aveva alzato la celata, si fidava di me. Mi aiutò quando traversai un lungo momento di cecità che molti anni dopo diventò sclerosi multipla. Gli servii persino da guida per il suo viaggio in Iran con Pietro Citati ed Elémire Zolla. Mi divertì apprendere che aveva sconfitto i suoi compagni sapendone di più sullo sciismo e sui rituali parsi. E poi per quello in Giappone. Dal Messico mi mandò una cartolina. Diceva “Il Messico è tutto scale”».
È vero che Calvino le dava da leggere i suoi libri prima che uscissero?
«Mi dava sempre prima i suoi libri da leggere e per tre volte mi coinvolse. In Se una notte d’inverno un viaggiatore un errore di prospettiva inceppava il meccanismo. Nella dedica scrisse “a Claudio che ha trovato il disegno (platonico) di questo libro”. In Palomar separai i testi veramente attinenti da altri che poi formarono Collezione di sabbia. Calvino sulle prime non era contento, mi disse “Ma è un libretto!”, poi si convinse. Le Lezioni americane nascono da un vasto materiale comune che doveva servire per un progetto ambizioso mai realizzato (qualcosa racconta un po’ di sbieco Agamben in Autoritratto nello studio)».
Con Elsa Morante come andò?
«Fu Bazlen a farmela incontrare e funzionò subito tra noi. Ne ho avuto la prova quando telefonò per dirmi: “È vero che odi Simone Weil?”. Le gelosie intorno a Elsa avevano operato. Mi precipitai a Roma e mettemmo tutto in chiaro. Quando dopo vari anni tornai in Italia, andai subito a trovarla e fu lei a spiegarmi il cambiamento del Paese. Da quel momento ci siamo visti sempre più di sovente. Consegnandomi il manoscritto di Aracoeli, mi disse: “Di’ a Giulio che non è La Storia, deve fare 40.000 copie”. Un anno dopo quello fu il risultato».
Com’è stato il ritorno in Adelphi? E come ha vissuto quella che Ferrando racconta come la frattura tra Calasso e Foà?
«Non c’era bisogno di ritorno perché non me ne sono mai andato. Per me l’Adelphi è sempre stata presente attraverso Calasso. Venendo allo scontro tra Foà e Calasso occorre tornare a Léon Bloy. Calasso doveva molto a Bloy: da L’Âme de Napoleon scaturì la scintilla che mise in moto La rovina di Kasch (il libro di Calasso dell’83 ndr). Più in piccolo, la scelta di usare solo la lingua latina, liturgica, per citare la Bibbia. Che Dagli ebrei la salvezza fosse soprattutto un testo contro la Chiesa Cattolica ufficiale e non contro gli ebrei, Calasso lo sapeva benissimo. E per evitare fraintendimenti si premunì commissionando uno scritto a Ceronetti, contrarissimo all’autore. Una operazione troppo sottile, tanto da diventare invisibile. Così successe il patatrac».
Che cosa esattamente?
«Da una parte la farsa di una cultura che trovava finalmente l’argomento principe, l’antisemitismo, per dare addosso a una casa editrice sempre più efficace e vistosa. Dall’altra lo struggimento di una famiglia in lutto per la morte di Alberto Zevi, amico fraterno di Luciano Foà, compartecipe della fondazione di Adelphi, e avverso alla pubblicazione del libro di Bloy. Non si erano capiti, Roberto e Luciano. In realtà quella presunta frattura non fu mai vissuta come tale da nessuno dei due. L’attaccamento di Calasso a Foà rimase costante. Lo dimostrano le pagine piene di gratitudine che si leggono nell’Impronta dell’editore».
Che Adelphi ha lasciato Calasso? E che Adelphi sarà quella del dopo-Calasso?
«Roberto ha lasciato una casa editrice vivissima, un catalogo da capogiro, autori molto affezionati. La sua scelta di mettere Roberto Colajanni e me nel consiglio di amministrazione a pochi mesi dalla sua scomparsa parla da sola. È stato un modo per unire passato e futuro. Poi ci sono le persone, la casa editrice stessa, a cui non voglio rivolgere aggettivi tanta è l’evidenza della loro bravura. Bastano i complimenti di Elias Canetti. Quello che Adelphi potrebbe essere o potrà essere rimane un enigma. Per ora, in questi due anni, quella vitalità è rimasta magicamente intatta, la recente pubblicazione degli inediti di Céline lo mostra. Spero che l’indicazione di Calasso agli eredi di restare uniti non rimanga inascoltata. Entità malefiche anelano oggi come prima a trasformare l’Adelphi in un’azienda di produzione libri, dimenticando su quali fondamenta poggia e che cosa la rende unica. Come antidoto soccorre la lettura di alcuni versi del Roman de Brut, che riportano come fu inventata quella meraviglia meravigliosa, la Tavola Rotonda, intorno alla quale è possibile rigenerarsi».