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 2023  luglio 09 Domenica calendario

Manganelli critico d’arte

Diceva scherzosamente di essersi «ingiorgiata». Era lei, Ebe Flamini, l’«anima carnale»: la compagna di Giorgio Manganelli, che fu sempre accanto allo scrittore per trent’anni, a partire dal 1960. Si curava di battere a macchina le stesure definitive delle opere manganelliane, o di seguirne le ricopiature nelle copisterie e di sbrogilare, per la dattilografa di turno, gli intrichi inintelligibili delle correzioni a penna che Manganelli cesellava sulle pagine. Morto lo scrittore, nel 1990, Ebe si mise nei panni del suo Giorgio, si «ingiorgiò» per l’appunto; e, in solitudine, fece eroicamente quel lavoro, lungo e impervio, che solo il suo compagno avrebbe potuto fare meglio. Mise ordine nel caos dell’archivio di Manganelli. Sistemò in appositi contenitori le varie stesure dei libri già pubblicati. Recuperò le opere incompiute e quelle pronte per la stampa. Ricostruì il disegno di varie raccolte di importanti articoli dispersi nel labirinto dei ritagli di giornali e di spaiati foglietti dattiloscritti. Impiegò due sudatissimi anni. Ebbe il tempo di affidare il prezioso carico al Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta dell’Università di Pavia e all’archivio della casa editrice Adelphi. Morì nel 1992.
Dalla preziosa cornucopia di Ebe Flamini, capiente e inesauribile, provengono molti degli scritti sulle arti che, dopo un intenso lavoro di riordino e incremento, alacremente lavorando, Andrea Cortellessa ha raccolto nel prodigioso volume adelphiano intitolato Emigrazioni oniriche: un libro la cui forza critica è pari all’invenzione linguistica e stilistica; all’originale e dirompente prestidigitazione narrativa.
Manganelli non è uno storico dell’arte. E neppure un critico d’arte. Lo dichiara apertamente: «Sebbene non sia critico d’arte», dice; e aggiunge di non essere «un esperto», uno specialista «per professione e cattedra». Diffida degli scranni accademici. Concorda con Arturo Carlo Quintavalle: «Gli storici dell’arte hanno paura dei linguaggi che si giustappongono, della mescolanza infinita delle forme e degli oggetti (…) E allora distinguono, distaccano, costruiscono paesaggi artificiali». Lui, Manganelli, guarda con meraviglia all’«ingegnoso catalogo del mondo» di Isidoro di Siviglia, «in cui tutto significa, e il mondo è il sistema dei significati. L’universo è un reticolo fitto di segni, di tracce, di appunti, di immagini che parlano, raccontano, organizzano e interpretano. Un linguaggio arbitrario e necessario, itinerari sottili da inseguire di oggetto in oggetto». È un letterato. Ne é orgoglioso. Fa letteratura, grandiosa letteratura. Guarda «con occhi inesperti di storia dell’arte». Ma è un virtuoso della lettura critica come intelligenza (anche) del «romanzo delle immagini»: «Se io volessi discorrere della pittura del Caravaggio, dopo tanto indagare e giudicare e comparare che se n’è fatto da gran tempo, farei cosa risibile ma non divertente; quel che posso fare, cautamente, è solo annotare alcune impressioni che possono proporsi a chi si è occupato essenzialmente di letteratura. Questo mi colpisce in Caravaggio in primo luogo, qualcosa che chiamerei l’astuzia. Il genio ha talora bisogno di astuzia, per eseguire i suoi compiti; e il Caravaggio mi fa pensare, forse bizzarramente, a quello che a me pare l’eroe dell’astuzia letteraria, una sorta di Ulisside, l’Ariosto. Sia il Caravaggio che l’Ariosto dovevano eseguire un compito che era estraneo o pressoché impossibile alla società in cui operavano; e si scopersero “furbi”, capaci di mentire in modo superbo, di adescare e sconcertare … L’astuzia del Caravaggio: costui dové operare per gran parte della sua breve vita a Roma, una città, come annota il Longhi, che commissionava pale d’altare; e non era pittore da pale d’altare. Non mi pare che avesse una religione interiore ma piuttosto che non avesse grande interesse per la letteratura religiosa degli eventi sacri … Caravaggio lacerò l’unzione dei temi sacri, e di questi fece dei titoli, delle didascalie; come fece dei temi accademici di origine mitologica: Medusa, Narciso, il Bacchino malato; e in verità tutto ciò che tocca ha la sontuosità tormentosa di una malattia ardua, strisciante, spettacolare». E a proposito di Donatello racconta: «Ho davanti agli occhi la predella di San Giorgio che uccide il drago del Museo del Bargello; e il Convito di Erode del Museo di Lilla: e so esattamente che cosa mi affascina dell’uno e dell’altro. Non è il valore estetico, e nemmeno il prestigio del nome; so che il Convito, arduo di intricate citazioni, è di incerta attribuzione: ma questo mi adesca, ed è il modo in cui queste figure mobili e lievi escono dalla pagina di marmo; appunto, le vedo come “scritte”. Come fosse uno scrittore, Donatello nella sua preziosa e virtuosa invenzione del “rilievo stacciato”, assiste alla fuoriuscita delle figure dalla pagina; si ha la sensazione che nulla sia stato aggiunto alla superficie piana e lirica, ma che da questa siano apparsi dei fantasmi di figure, evocati dalla esistenza pura e semplice della pagina, appunto, come può accadere ad uno scrittore».
Va per mostre, Manganelli. Frequenta musei e pinacoteche. Pratica chiese, collezioni, gallerie, e persino case museo (come quella solitaria di Emil Nolde, artista che Manganelli mette in dialogo con Edgar Allan Poe). L’erratico scrittore divora cataloghi d’arte e si diletta della sua erranza, ora fisica ora mentale. Sbarazzino, si prende gioco del suo presunto vanverare che di fatto è sfrenata competenza ed esattezza intellettuale: «Che bello non essere di professione critico d’arte, ma andando vagabondando ad adocchiare tele e disegni e dir sciocchezze, come viene viene».
E intanto, fingendo futilità, scrive le sue mirabili «letture», i suoi adescanti racconti critici, i suoi magnifici saggi. La vasta planimetria del libro ingloba spiazzi dedicati agli antichi e ai moderni, all’Occidente e all’Oriente: a Van Gogh e Hokusai; agli Etruschi, agli Egiziani, agli Arabi; a Michelangelo, Pontormo, Bernini, Giacomo Ceruti (detto il Pitocchetto), Tiepolo, Otto Dix, Alberto Martini, Lucio Fontana, Fausto Melotti. Un’intera piazza è riservata agli amici pittori di Manganelli, ai suoi compagni di strada: a Toti Scialoja, Gastone Novelli, Achille Perilli, Baruchello. C’è posto per le icone russe, un acquamanile quattrocentesco, e il mondo del miracolo degli ex-voto (con i loro tocchi di languore, questi, più vicini al melodramma che alla storia della pittura). Uno slargo si apre all’araldica moderna, agli arredi e agli addobbi delle case, alle tappezzerie, al guardaroba di D’Annunzio, ai poster: alle squisitezze di una critica che (con uno stile tutto suo, inconfondibile) passa attraverso la gande lezione di Mario Praz.