il Giornale, 9 luglio 2023
I social ci rendono più stupidi?
I social ci rendono più stupidi? Secondo Ofir Turel, che ha realizzato decine di pubblicazioni e ricerche su questioni comportamentali, biologiche e psicologiche legate alle tecnologie (ora insegna Information Systems Management all’Università di Melbourne, prima lavorava al Decision Neuroscience Program dell’University of Southern California), la risposta è: «Probabilmente no». Spiega: «Credo che sia accaduto sempre, con qualsiasi nuova tecnologia: all’inizio ne siamo spaventati. Con la stampa, pensavamo che l’inchiostro ci avvelenasse. Con la bicicletta, temevamo che cambiasse la forma del nostro corpo...». Turel è un esperto di dipendenze e, da questo punto di vista, ritiene che l’effetto dei social sia meno invasivo di quanto immaginiamo: «È vero, i social ci rendono dipendenti, ma non più stupidi, anzi: ci danno accesso a molte più informazioni e, quindi, abbiamo la possibilità di ampliare le nostre conoscenze. Quando alla dipendenza, nel cervello abbiamo due sistemi, paragonabili a quelli di una automobile: un acceleratore e un freno». L’acceleratore è quello «sensibile»: «Nel caso dell’assunzione di cocaina, il cervello accelera moltissimo, e il freno non funziona. Nel caso dei social è diverso: l’acceleratore è molto sensibile, ma il sistema di controllo funziona». Quanto alla distrazione, secondo Turel il rischio esiste ma «non si tratta di renderci più stupidi: i social possono disturbare il processo di apprendimento, è vero, ma possiamo controllare il loro utilizzo; quindi la cosa importante è creare un ambiente di lavoro e di studio sano». C’è un però. «Nel caso dei bambini il sistema che ha a che fare con l’acceleratore è maturo come nel cervello adulto, mentre quello che governa il freno non è ancora sviluppato: per questo, per loro, il controllo è molto più difficile». L’uso eccessivo dei social potrebbe bloccare questo sviluppo? «È una domanda aperta» dice Turel.
Del resto, quasi tutti i dubbi riguardanti le nuove tecnologie sono apertissimi, anche perché gli studi a lungo termine sull’argomento sono pochi. Uno dei più importanti, che riguarda lo sviluppo cerebrale nei giovani, è citato da Lisa Iotti, giornalista e autrice di 8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione (il Saggiatore), un libro che già nel 2020 metteva in guardia da quello che, secondo molti esperti, non è soltanto un disturbo passeggero della nostra capacità di attenzione, bensì una condizione che rischia di diventare permanente: si tratta dell’Abcd Study del Laureate Institute for Brain Research di Tulsa, in Oklahoma, in corso su diecimila ragazzi dai 9 ai 20 anni. I ricercatori hanno già visto che chi passa molto tempo sugli schermi, a scrollare messaggi, post, informazioni e video in continuazione, ha «un disallineamento - dice Iotti - La parte del cervello che elabora le informazioni visive è più sviluppata rispetto all’area della corteccia prefrontale», ovvero la parte del cervello collegata all’autocontrollo, al comportamento sociale, al pensiero astratto, al giudizio, alla soluzione dei problemi, alla concentrazione... Lo stesso meccanismo si rileva nella pupilla: gli studiosi francesi hanno tracciato il movimento degli occhi durante lo «scroll» dei social, e hanno notato che è molto più veloce rispetto a quando leggiamo sulla pagina di carta. «L’occhio salta qua e là come una pallina da flipper - dice Iotti - Questo allena la capacità di andare al punto e la velocità, che sono competenze molto utili, ma indebolisce i circuiti che ci permettono di porci davanti a un testo complesso e di avere la pazienza cognitiva per capire e fare uno sforzo profondo di lettura». Non solo. Tasti come «like», «share» o «retweet» la fanno da padrone sui social; ed è così che si viene a privilegiare (lo fanno le aziende, e gli utenti di conseguenza) «ciò che sollecita una reazione, di solito emozioni negative: e infatti reagiamo tutti, in continuazione... TikTok si basa proprio su questo: fa diventare virali video e immagini perché sa che smuove certe emozioni, e tu non devi neanche fare niente, non devi neanche connetterti o farti gli amici come su Facebook». Una indagine condotta a Stanford inchioderebbe anche i sostenitori del multitasking - leggo le email, butto un occhio a TikTok, metto un like su Facebook, ritwitto un messaggio e rispondo al cellulare - confrontando le prestazioni di oltre duecento studenti: «I grandi multitasker - racconta Iotti - sono stati quelli coi risultati peggiori nei test riguardanti la memoria, il controllo e l’apprendimento cognitivo». Una débâcle? «Siamo sempre in un concentratissimo stato di distrazione» secondo Iotti: immersi nel gorgo dello scroll continuo tendiamo a semplificare, più che a raffinare; mentre, paradossalmente, per orientarci nell’oceano digitale di stimoli ci servirebbero facoltà portentose. Più in generale, mentre trascorriamo ore a guardare video su TikTok o post su Instagram, il nostro cervello continua a lavorare, finendo vittima di quella che Byung-chul Han chiama la «Information fatigue syndrome», la sindrome da affaticamento (mentale) per l’eccesso di input. Del resto, per il filosofo sudcoreano la nostra è una Fatigue society, che, come chi lavora troppo e troppo sotto stress, finisce per essere una Burnout society, ovvero una società «esaurita»...
Lasciando da parte effetti «collaterali» quali depressione e ansia - a proposito dei quali esistono più studi disponibili, e tutti sottolineano una correlazione, anche se non sempre univoca, con l’utilizzo massiccio dei social - il tema della distrazione è, per molti, una conseguenza ineludibile dei nuovi media. Per il giornalista Johann Hari, il cui saggio L’attenzione rubata. Perché facciamo fatica a concentrarci (La nave di Teseo) è stato appena pubblicato in Italia, «secondo la scienza ci sono dodici forze che stanno distruggendo la nostra capacità di concentrarci e pensare in profondità». E una di esse sono i social, per via di «come sono disegnati», ovvero: «La nostra distrazione è il loro carburante - dice Hari - L’ex ingegnere di Google, e mio amico, Tristan Harris lo ha spiegato così al Senato: Puoi cercare di mantenere l’autocontrollo, ma ci sono un migliaio di ingegneri, dall’altra parte dello schermo, che lavorano contro di te». La distrazione danneggia la prestazione del nostro cervello? Hari cita Earl Miller, neuroscienziato del Mit, che descrive le nostre continue interruzioni come un «barcamenarsi»: «Non ce ne accorgiamo, ma quello che facciamo è un continuo interrompere e riconfigurare il nostro cervello un momento dopo l’altro, un compito dopo l’altro, e tutto questo ha un prezzo: tutte le cose che facciamo, le facciamo con meno competenza». Dice Hari: «È quella che Miller definisce una tempesta perfetta di peggioramento cognitivo, come risultato della distrazione». Hari però non è pessimista, anzi: nel suo saggio suggerisce dei metodi per invertire la tendenza, convinto che la nostra dipendenza dai social non sia ineluttabile. Ottimista è anche Edoardo Boncinelli, che alla mente ha appena dedicato un Piccolo dizionario della nostra coscienza (ilSaggiatore) ed è, fra l’altro, un appassionato studioso e fruitore dei social, soprattutto Facebook: «Prima di cambiare l’assetto interno di un essere vivente ci vogliono secoli e millenni... Anche qualche decennio fa si diceva che i calcolatori ci avrebbero fatto disimparare a calcolare, e non è stato così. Piuttosto dovremmo domandarci: perché abbiamo sempre così tanto bisogno di dire che oggi è peggio di ieri?». È un’altra la critica del grande genetista: «Se ci si immerge in una giornata intera di domande e risposte sui social, è come staccare i contatti con il mondo reale. Il problema è piuttosto questo, una sorta di ottundimento, di anestesia».
Anche per Giacomo Rizzolatti, il neuroscienziato che con i suoi esperimenti all’Università di Parma ha fatto una delle più grandi scoperte degli ultimi decenni nel suo settore, quella dei neuroni specchio, alla base dell’empatia, i social «non ci rendono più stupidi». Però «c’è un’altra cosa più pericolosa: i memi, che sono interattivi, e ai quali dobbiamo rispondere subito, sono entità culturali che si propagano da un individuo a un altro, come un virus, e non ci rendono più stupidi, ma ci tolgono libertà, perché dipendiamo da altri per le nostre convinzioni». Questi «virus» digitali sfruttano proprio il meccanismo dei neuroni specchio: «L’imitazione è solo nostra, dell’Homo sapiens; tanto che una delle teorie sullo sviluppo della cultura è che sia basata sull’imitazione - dice Rizzolatti - L’uomo è un grande imitatore, e il bambino ancora di più: imita molte cose utili, ma anche parassitarie. L’imitazione via web è fortissima, perché devi interagire: e, se uno imita cose parassitarie, queste possono determinare convinzioni che, forse, uno non ha. Si pensi all’uno vale uno dei grillini...». I social influiscono sull’empatia? «Più che altro il pericolo è sull’emozionalità - spiega Rizzolatti - Secondo uno studio condotto in Giappone, l’imitazione fra persona e persona, per esempio durante uno spettacolo teatrale, è più forte e penetrante di quella che avviene attraverso uno schermo».
Infine, Maryanne Wolf, neuroscienziata cognitivista dell’Ucla e membro della Pontificia Accademia delle Scienze, alla domanda se i social ci rendano più stupidi risponde: «Sì e no». Da anni Wolf studia «il cervello che legge», e lo ha raccontato in volumi come Lettore, vieni a casa e Proust e il calamaro (editi da Vita e pensiero, insieme ai suoi racconti Maria Maddalena e Gesù. Storie di consolazione). «La tecnologia influenza il modo in cui il cervello processa le informazioni, influisce su come capiamo - spiega - Ora, quando il cervello legge su carta, non stiamo solo decodificando delle informazioni, bensì impariamo anche ad agganciare queste informazioni al nostro background: attiviamo un pensiero analogico, facciamo confronti con ciò che abbiamo immagazzinato in precedenza, usiamo le inferenze per giudicare a partire dai dettagli... Molte parti del cervello sono attivate, per esempio anche quelle del movimento: tutto è molto interattivo e avviene in millisecondi. È una danza fra i due lobi». In questa «danza» noi abbiamo la possibilità di utilizzare «l’analisi critica», che ci consente di «individuare la verità». Sembra meraviglioso, solo che «l’analisi critica è collegata alla lettura profonda - dice Wolf - Invece, quando siamo sui social, noi scremiamo». È il cosiddetto skimming: «Pensiamo di sapere già le cose, quindi si innesca una lettura passiva, che non attiva tutti quei processi nel cervello di cui abbiamo detto. Non usiamo la totalità della nostra intelligenza: è un assorbimento veloce delle informazioni, un muoversi in fretta e via, da una all’altra, in cui dai poco tempo al cervello per analizzare e consolidare i contenuti nella memoria. Consolidare è parte di ciò che costruisce il nostro bagaglio di conoscenze, ma in questo modo non ricordi quello che leggi». C’è un’altra conseguenza di questa «scrematura»: «Diventiamo più esposti alla cattiva informazione e alla disinformazione, perché in questa passività ci affidiamo a fonti famigliari e non le controlliamo, non le analizziamo, non verifichiamo che siano vere. Siamo vulnerabili. Nel tempo avviene una atrofizzazione dei nostri poteri intellettuali più elevati». In fondo il motto dei neuroscienziati è «use it or lose it», o lo usi o lo perdi... Se scremi non costruisci vera conoscenza: «Rimani al livello superficiale e puoi essere manipolato facilmente, sei incline a credere ciò che è falso». Per i bambini, tutto è ancora più complicato, sottolinea Wolf, perché il processo di lettura profonda è ancora da costruire. «In questo momento stiamo crescendo dei cervelli distratti e passivi. I bambini devono apprendere il mondo digitale e le capacità tecnologiche a esso legate ma, insieme, devono sviluppare il processo di lettura profonda, che è fondamentale per l’umanità».