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 2023  luglio 09 Domenica calendario

Biografia di Fausto Russo Alesi raccontata da lui stesso

La sua immagine WhatsApp è la quintessenza dell’ombra. Non sorride, poca luce, braccia conserte, labbra serrate, camicia nera sotto una giacca blu. Fausto Russo Alesi è perennemente in sottrazione. È come se giocasse con il sipario della vita, come se si nascondesse tra le pieghe di quella tenda, senza confondere palco e realtà; come se i suoi personaggi vivessero un’esistenza autonoma, tra l’attimo del ciak e lo scricchiolio delle assi di legno (“Credo sia necessario così”).
Lui è diventato l’attore feticcio di Marco Bellocchio, già Falcone ne Il traditore, Cossiga in Esterno Notte o Salomone Mortara in Rapito (“Siamo ancora in giro per presentarlo”). E all’improvviso, già da grande, è come se avesse tolto parte della sua maschera attoriale per svelare se stesso.
Quante volte ha visto Rapito?
Meno di quante avrei voluto; adesso vorrei andare a sedermi in una sala, tranquillo, a godermelo accanto a mia figlia e magari anche con il piccolo.
Orgogliosi di papà.
Credo di sì, ma non ne parliamo molto.
Non girano con il cartello “è mio padre”?
No, vista la mia discrezione e forse anche la loro.
Super discreto.
(Ride. Ma tanto) Eh, lo so.
La sua foto profilo di WhatsApp è inquietante.
Lasciamo perdere, sembro un serial killer; quella di Facebook è un po’ meglio.
Si è applicato.
No, per fortuna l’ha scelta qualcun altro; (sorride) in questo non sono bravissimo.
È diventato famoso da cinquantenne.
(Ci pensa) Prima è fondamentale costruirsi un percorso solido, mentre se il successo ti arriva quando hai vent’anni sei maggiormente frutto della casualità della vita.
Poi dopo…
Devi fare i conti con la costruzione di una tua direzione e il successo troppo veloce può tramutarsi in distrazione rispetto alle tue reali priorità.
Ha rischiato di venir distratto?
No, ho sempre cercato di affrontare le scelte calcolando le conseguenze.
La scelta chiave?
Lasciare Palermo, destinazione Milano.
Età?
Diciotto anni.
Però…
(Ci pensa) Ecco, in realtà questa decisione era facilmente dirottabile.
Perché?
Fino ai 18 anni nessuna delle mie scelte era stata legata alla recitazione: manifestavo l’interesse, ma non andavo oltre; andavo giusto a teatro, mentre la mia principale attività era lo sport.
Quale sport?
Giocavo a pallavolo a livello agonistico, vuol dire due allenamenti al giorno, più la scuola. Per tutto il resto non c’era spazio.
Non affrontava neanche le recite scolastiche?
(Ride) Quelle sì, anzi pretendevo di partecipare, pretendevo tutti i ruoli, con la suora che mi detestava e tentava continuamente di ridurre la mia presenza in scena. La conseguenza? Scoppiavano molti drammi.
Mamma interveniva.
Obbligata, arrivavo a casa dilaniato; (abbassa la voce) lo ammetto, a scuola strappavo la scena in luoghi e ambiti non preposti.
Che intende?
(Ride) In pullman, durante le gite scolastiche, prendevo il microfono e magari cantavo tutte le ultime canzoni di Sanremo.
Tipo Alberto Sordi in Mamma mia che impressione.
Il microfono non lo mollavo, i professori mi accusavano di distrarre i compagni dal vero motivo della gita o dalla preghierina.
Lei è un estroverso introverso.
Per questo amo i ruoli con personaggi estremamente dirompenti, soprattutto a teatro.
Dà sfogo a tutto.
Eh, certo!
Soffre il palco?
No, utilizzo tutto quello che mi serve per andare in scena e liberarmi; per questo cerco di stare dentro me stesso; (sorride lievemente) sul palco sono talmente concentrato da non sopportare neanche l’intervallo.
Ha recitato per Ronconi, si definisce un ronconiano?
No; (silenzio) questa è una risposta complicata, anche se a lui devo molto; un attore deve stare in estrema comunicazione con il regista, senza dimenticare se stesso; l’attore non può essere solo un esecutore.
Quando affronta una recita conosce anche le parti degli altri?
Sì, serve a entrare nella testa dell’autore; capire qual è il punto di vista di ogni personaggio ti permette di focalizzare meglio il tuo; comunque mi isolo tantissimo, sul set divento insopportabile.
Addirittura.
Sono sempre solo e non è un vezzo, ma un’esigenza per restare dentro il ruolo; mentre ci sono attori che lavorano sulla distrazione, è la loro fonte di energia.
È come William Hurt in Turista per caso quando insegna le strategie per non venir disturbati.
(Ride) Ecco, mi chiudo in bagno.
Un collega che è il suo opposto?
No, evito nomi; però mi sono capitati attori con un piccolo ruolo, magari piccolissimo, ma poco attenti a certe dinamiche e lì uno potrebbe stranirsi: in questi casi si ha la possibilità di guardare, di capire e invece preferiscono altro.
Prova invidia?
Davanti a bellezza e talento, godo.
Bellezza e talento, a chi pensa?
Ad Anna Magnani: aveva una forza, una bellezza senza etichetta.
Lei sui primi set.
Stavo in continuazione davanti al monitor, cercavo con gli occhi ogni sfumatura, provavo a comprendere come si preparavano gli attori per una scena…
Una scena che le viene in mente…
Se penso a Pane e tulipani, il mio primo film, vedevo Bruno Ganz, attore straordinario, lavorare con una levità pazzesca insieme a Licia Maglietta. Lui è stato un grande stimolo a costruire un percorso senza paletti.
Torniamo a Palermo…
Coinvolto in studi che non mi interessavano, sapevo solo quello che sicuramente non sarei voluto diventare.
Tipo?
Niente di legato al commercio, poi dentro di me sentivo un desiderio di espressione, la famosa fiammella, allora fioca, ma andava alimentata.
Sostenuto?
Dagli amici e dopo anche dalla famiglia; prima di entrare alla Paolo Grassi ho passato tutta l’estate a prepararmi per sostenere i provini.
Aveva messo in conto la sconfitta?
Per forza, in realtà era la certezza di tutti: lì si presentavano in 1.000 e ne accettavano 20, quindi non era previsto il mio accesso; (sorride) una volta entrato ero sicuro che non avrei più mollato, neanche se poi mi avessero bocciato.
Ha lavorato nel frattempo.
I primi anni no, poi ho cercato di non gravare sui miei, quindi per un breve periodo sono entrato in un call center, cuffiette in testa ed elenco delle persone da contattare. Non è stato facilissimo.
È totalmente atono.
(Stupito) Davvero? Ci ho lavorato tantissimo, in Accademia ero un po’ il caso disperato eppure non me ne rendevo conto; oramai sono trent’anni che vivo a Milano.
È molto cangiante.
(Felice) È uno dei grandi vantaggi di questo lavoro: diventare infinite cose, tramutarsi, capire le differenti angolatura della vita; ma dentro quel personaggio devi restare te stesso, devi aggrapparti a qualche certezza acquisita nella vita.
A casa i suoi figli trovano mai riflessi dei personaggi che interpreta?
(Ride) Più mia moglie.
La bacchetta?
(Ride a lungo) Dopo che vede il film, mi guarda e scatta la frase: “Adesso ho capito”; mentre il piccolo dei miei figli si spaventa se sullo schermo mi vede incazzato.
Non è abituato.
Mi pone domande su domande, poi magari, mentre torniamo a casa, cerca sicurezze: “Ti è passata?”. “Cosa?” “Prima eri adirato!”.
Povero.
Una volta ero ospite di La7 per parlare di uno spettacolo di Ronconi; lì portavo un pezzo duro, dove ero costretto a fissare la telecamera. Mio figlio dispiaciutissimo.
Per uno spettacolo di Ronconi una volta Popolizio è svenuto. Lei?
Al massimo sono andato in iperventilazione: quando mi sono svegliato non ricordavo più nulla.
La sua ossessione?
(Ripete la domanda, più volte) Quella positiva è di riuscire a lasciare qualcosa, una traccia.
Negativa.
Ci devo pensare.
Girerà mai un film di Natale?
(Quasi balbetta) Tipo?
Dove rutti e peti non sono un tabù.
Se sono motivati in un contesto, se sono legati a una storia, a un personaggio; (ci pensa ancora ) se sono dentro al contesto di un essere umano, forse.
Troppi se…
Allora non me ne frega niente.
Ha le chiavi comiche nella sua tavolozza recitativa?
Il luogo dove sto maggiormente a mio agio è la tragicommedia. È lì che mi sento completo.
Cossiga aveva alcune chiavi comiche…
Lì c’era una bipolarità da portare sullo schermo.
Cinquant’anni tra pochi mesi. Era quindi l’ora di diventare famoso?
Perché, lo sono?
Sicuramente più di prima.
Era ora di continuare con il mio meglio e per i prossimi cinquanta vorrei poter avere veramente la possibilità di lavorare su grandi progetti, magari come Bellocchio. Lui non ha limiti. Lui è un maestro assoluto. E questa è l’arte.
La pallavolo l’ha portata nell’arte?
Come disciplina, agonismo e gioco di squadra.
Lei chi è?
(Silenzio) Sono Fausto Russo Alesi…