ItaliaOggi, 8 luglio 2023
Orsi & tori
Topolino e 600. Può un’operazione nostalgia rilanciare l’industria automobilistica in Italia? Se fossero davvero nuove auto italiane, come lo furono quelle storiche, la risposta sarebbe affermativa. Ma non è così. La Topolino è la copia della più piccola della Citroën che si chiama Ami; la 600 non ha niente a che vedere con la storica vettura con il motore posteriore. Per di più si è cercato, per la presentazione, la data del 4 luglio per poter dire che nel 1957 nacque la 500, che al momento, anche nella versione attuale, resta l’unica auto tuttora autenticamente italiana.
Si dirà: il mondo dell’automobile è ormai globale, cosa c’entra quindi pignoleggiare sul made in Italy delle auto? No, non si vuole pignoleggiare, piuttosto si vuole dire che quello compiuto il 4 luglio è un puro tentativo di marketing non troppo rispettoso verso l’Italia, perché si vuole far passare per italiane auto che sono, come minimo, francesi.
Per carità, non è uno scandalo, ma forse è un’operazione nostalgia che non può interessare più di tanto ai giovani italiani. Cosa conta il mito, se non è certo tale per le nuove generazioni? Piuttosto, è una dimostrazione che non basta il marketing retrò per far credere che l’Italia sia ancora una potenza automobilistica. L’italo-francese John Elkann, nonostante il nonno Giovanni Agnelli gli avesse fatto fare larga parte degli studi in Italia, ha a Parigi larga parte dei suoi riferimenti, non solo per Stellantis di cui come secondo azionista è presidente. E non basta la posizione di presidente di per dargli l’attribuzione di continuatore, nonostante l’indubbio impegno, della dinastia italiana dell’auto. Sergio Marchionne era andato in Usa a comprare il marchio e le fabbriche Chrysler-Jeep e aveva rimesso in sesto la Fiat. Elkann ha ritenuto, certo con realismo, passare la mano ai francesi. Per carità, ogni imprenditore ha il diritto di scegliere, come ogni essere umano, ma non è probabilmente vantaggioso chiamare la Ami Citroën con il nome della gloriosa Topolino, che ha determinato il primato mondiale della Fiat nel settore delle utilitarie.
ItaliaOggi non ha assolutamente nulla contro John, con il quale personalmente ho un rapporto amichevole, ma crediamo che il lancio dell’operazione nostalgia sia troppo per far credere che l’Italia, o meglio la Fiat, abbiano ancora un ruolo centrale nel mondo dell’automobile. Chi si prova a farlo credere è anche il ceo del marchio Fiat, il francese Olivier François che ha dichiarato: «Il marchio Fiat vi stupirà, da qui ai prossimi tre anni aiuterà tutto il gruppo a crescere». I prossimi tre anni; l’inizio, con l’operazione nostalgia, non appare una buona partenza. Anzi. Perché tende a far credere appunto che la Fiat come entità di gruppo esista ancora, come un pilastro dell’imprenditoria e dell’industria italiana. Ma, e non lo si dice certo per nazionalismo, la Fiat non c’è più. E anche gli affari della famiglia sono altrove, come ha scritto Andrea Giacobino su MF di giovedì 6, descrivendo in dettaglio il bilancio della Giovanni Agnelli BV (olandese), che è al vertice e controlla Exor, quindi il gruppo.
Infatti, per remunerare i diversi rami della famiglia Agnelli-Elkann è stato necessario ridurre il patrimonio, nonostante l’incasso da Exor di un dividendo di 55,2 milioni di euro. Il valore della partecipazione, tuttavia, è rimasta invariata al valore di carico di 1,36 miliardi di euro.
Il patrimonio netto complessivo della Giovanni Agnelli Bv è diminuito nel giro di un anno da 868,4 a 833,1 milioni per la riduzione delle riserve da 688 a 652 milioni di euro, consentendo così di distribuire un dividendo di 36 milioni. A fronte di una liquidità diminuita da 167 mila a 140 mila euro, la cassaforte olandese della dinastia torinese ha debiti bancari che nel corso dell’anno sono aumentati da 284 a 371 milioni. La nota integrativa spiega che per 100 milioni si tratta di linee di credito a breve termine. Si legge poi nel bilancio del pagamento, avvenuto nel febbraio 2022, di 203,4 milioni di euro all’Agenzia delle Entrate come parte del doppio accordo, del valore complessivo di 949 milioni, siglato per chiudere in maniera definitiva i contenziosi che si erano aperti con l’erario italiano.
Il presidente è naturalmente l’erede, cioè John Elkann, e i consiglieri Andrea Agnelli, Andrea Nasi, Benedetto Della Chiesa, Florence Hinnen, Jeroen Preller, Luca Ferrero di Ventimiglia e Tiberto Ruy Brandolini d’Adda. Azionisti di comando della Giovanni Agnelli Bv è la società semplice Dicembre (60% John Elkann e 20% ciascuno la sorella Ginevra e il fratello Lapo), che possiede il 38% della Giovanni Agnelli. Il pacchetto di proprietà degli eredi di Umberto Agnelli (rappresentati da Andrea e dalla sorella Anna) è dell’11,85%, mentre il ramo di Maria Sole detiene l’11,63% e il ramo di Giovanni Nasi l’8,79%. Le quote in trasparenza vedono poi il ramo di Clara Nasi-Ferrero di Ventimiglia al 3,53% e quello di Laura Nasi-Camerana al 6,26%. C’è poi la quota degli eredi di Clara Agnelli a un po’ meno dell’1%. Il ramo di Emanuele Nasi risulta al 2,58% e quello di Susanna Agnelli al 5,11%. Il ramo di Cristiana Agnelli infine è intestatario di una quota del 5,05%, mentre la quota di azioni proprie è al 6%. Il capitale risulta invariato a 180,3 milioni di euro ed è costituito da 3,5 milioni di azioni ordinarie e da circa 34 mila azioni di categoria B (prive di diritto di voto), ciascuna con un valore nominale di 50 euro.
Non fa certo piacere constatare che la prima famiglia del capitalismo italiano non attraversi un periodo brillante. L’industria automobilistica è in profonda trasformazione: a dominare in Europa soni i tedeschi e appunto i francesi di Stellantis, anche grazie all’intervento dello stato che è pure il padrone di Renault dove Luca de Meo, ex-allievo di Marchionne, sta facendo molto bene. Ma c’è anche la svedese Volvo che, finita sotto il controllo cinese, ha riconquistato una soddisfacente quota di mercato.
Se si guarda indietro, c’è un passato anche lontano in cui la Fiat aveva cominciato il declino, fino ad accettare, su intervento-salvataggio di Enrico Cuccia, l’ingresso della Libia di Gheddafi nel capitale. Il compito di Elkann non era quindi facile e con la freddezza e il realismo del nonno francese ha scelto di tentare l’alleanza, anche se in minoranza, proprio con i francesi. E per l’Italia è tutt’altro che secondario non avere più un grande produttore di auto, mentre nel settore è inevitabilmente in atto una rivoluzione.
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Il linguaggio è sempre felpato, anche nel suo intervento all’Assemblea dell’Abi, che è probabilmente uno degli ultimi da governatore della Banca d’Italia. Ma il messaggio che Ignazio Visco ha lanciato alla presidente della Bce, Christine Lagarde, è inequivocabile: «La Banca centrale europea, a metà giugno, ha ulteriormente aumentato i tassi ufficiali di 25 punti base, portando quello sui depositi delle banche presso l’Eurosistema al 3,5% , quattro punti percentuali in più rispetto al luglio dell’anno scorso… Anche a fronte del marcato irrigidimento delle condizioni di finanziamento e del forte indebolimento del credito, si dovrà procedere con la necessaria prudenza al fine di evitare indesiderate ripercussioni sull’attività economica, sulla stabilità finanziaria e sulla stessa stabilità dei prezzi a medio termine». E ha aggiunto in maniera equivoca: «Oltre che sui rialzi dei tassi di rendimento, la politica monetaria può contare sul loro mantenimento a un livello e per un periodo di tempo adeguati a riportare l’inflazione al valore obbiettivo. Ora che i tassi sono in territorio restrittivo, calibrare la durata della stretta monetaria, piuttosto che aumentare eccessivamente l’ampiezza, avrebbe il vantaggio di agevolare un’analisi più informata degli effetti dell’azione fin qui condotta».
Insomma, no all’aumento ulteriore e immediato dei tassi (come invece ha comunicato la Lagarde). Ma anche una evidente critica sull’analisi, che dovrebbe essere più informata sulle scelte finora compiute.
Il governatore ha criticato in maniera così chiara le scelte della Bce solo perché lascerà presto la Banca d’Italia? Non credo. Il governatore Visco non è certo uomo dal vigore di Mario Draghi, ma la sua onestà intellettuale è fuori discussione. E se si spogliano le sue parole dalla ricerca sempre di essere felpato, il suo messaggio all’Assemblea dell’Abi ma in realtà diretto in primo luogo alla Bce, non solo è coraggioso ma fortissimo. Da ottimo economista, guarda caso in linea con la Fed, che ha annunciato saggiamente una pausa per capire fino in fondo gli effetti dei rialzi verticali già decisi. Ma a Francoforte oggi, di fatto comandano Joachim Nagel, presidente della Bundesbank e Isabel Schnabel, membro dell’esecutivo Bce. È sempre stato così. Anche quando era presidente Draghi, il presidente di allora della Bundesbank, Jens Weidmann, fu l’unico a votare contro la decisione di fare «Tutto quello che serve».
E all’Italia serve molto, perché secondo gli ultimi dati Istat, nei primi mesi dell’anno il deficit ha corso più del pil, che pure è salito più di quello degli altri paesi della Ue. Tra gennaio e marzo il deficit pubblico è salito dall’11,3% del pil al 12,1% e anche chi ci ha meno esperienza economica sa che se aumenta il deficit aumenterà inevitabilmente anche il debito, che è già il più alto in Europa. Non è allarme rosso ma è chiaro che, se la Bce alzasse ancora i tassi senza annunciare stop, anche il rendimento e quindi il costo per lo stato dei Btp dovrebbe aumentare, peggiorando ulteriormente il deficit.
Si ripropone, quindi, la proposta ricorrente su queste pagine e cioè della necessità di tagliare il debito, come dovrebbe fare qualsiasi azienda che avesse un indebitamento superiore (e nel caso del 50%) rispetto al fatturato. Ma questa volta non è solamente un auspicio: grazie a due persone intelligenti, consapevoli e impegnate sia pure a diverso livello, il moloch si muove.
La persona più autorevole che condivide l’idea di ItaliaOggi da più anni, il lettore lo sa, è il ceo di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, che ha dichiarato molte volte e pubblicamente la disponibilità della prima banca del paese a realizzare fondi comuni locali che valorizzino gli immobili passati molti anni fa dello stato agli enti locali per un valore di almeno 600 miliardi; fondi comuni immobiliari locali anche perché i cittadini del posto, oltre a investire e a godere della sicura rivalutazione, possano essere testimoni di una operazione che può dare lustro al loro territorio e che generi ricchezza, consentendo di tagliare di pari valore della raccolta il debito pubblico (gli enti locali che hanno ricevuto gli immobili, concorrono al debito pubblico nazionale per circa 500 miliardi). Per dare un segnale ai mercati, basterebbe fare un taglio di 150-200 miliardi di euro.
Quanto ho riscritto è ben noto ai lettori. Il fatto nuovo è che secondo quanto risulta a Italiaoggi, recentemente lo staff più diretto di Messina ha avuto un incontro con una persona che ha le caratteristiche di ruolo e le capacità professionali per essere pilastro di un progetto come quello auspicato da questo giornale. Giovanna Della Posta (è lei il pilastro possibile) è il dinamicissimo l’amministratore delegato di Invimit sgr, la società del ministero dell’economia che si occupa giustappunto di valorizzare il patrimonio immobiliare delle stato. Per l’esercizio 2022, ItaliaOggi ha accertato con il ministero che Della Posta ha fatto incassare allo stato un dividendo di 400 milioni. Un moscerino per il debito pubblico ma un moscerino illuminante, una lucciola, che fa capire cosa potrebbero fare insieme Intesa Sanpaolo, la cui vocazione istituzionale è acclarata, e la Sgr dello stato guidata da Della Posta. Risulta, con soddisfazione, al ministero dell’economia guidato dal draghiano Giancarlo Giorgetti, che quei 400 milioni di dividendo sono frutto del lavoro anche nel settore privato. Risulta anche che oltre agli immobili, palazzi bellissimi o decadenti, o caserme abbandonate da decenni (a Milano ce n’è una con un fronte lungo un km), nel patrimonio dello stato ci sono milioni e milioni di metri quadri di terreni da valorizzare.
Se, come è probabile, il felpato invito a Lagarde e ai due esponenti tedeschi nella Bce non sarà accolto e quindi il costo del denaro sarà ulteriormente innalzato, per non dover subire un ulteriore incremento pubblico, all’Italia non rimane che tagliarlo per un pezzo significativo, sì da scongiurare speculazione e riconquistare credibilità. Messina e Della Posta sono pronti. È bene che la presidente Giorgia Meloni lo sappia.