La Stampa, 8 luglio 2023
Intervista a Pietro Sermonti
La prima domanda la fa lui: «Cosa posso fare per te?». Poi si alza, si siede, offre un bicchiere d’acqua, si leva lo zuccotto di paglia con cui tentava di mimetizzarsi, se lo rimette, sorride: «Se non mi piacesse piacere, almeno un po’, non potrei fare questo mestiere. Qualunque sia lo stile, chi fa questo lavoro parte da un grande bisogno di accettazione. Io l’ho declinato prima in una forma sportiva, con il calcio, ma, alla base, anche allora, c’era il bisogno di essere visto». Ospite del Filming Italy Sardegna Festival di Tiziana Rocca, Pietro Sermonti presenta il suo ultimo film La caccia al fianco di Marco Bocci che definisce «Joaquin Cortes, il mio coreografo personale». Tutto il resto è un fiume di simpatia travolgente, di battute e contrappunti, ragionamenti e teoremi.
Ha detto spesso che è importante coltivare le proprie passioni e che si è spesso pentito di non averlo fatto. Perché?
«Mi ritengo il campione europeo di occasioni perse, possibilità e talenti che ho fatto sfiorire, anzi, mi è capitato di godere vedendoli morire. Eppure sono convinto che chi lascia appassire i propri talenti sia infelice. È successo soprattutto nel mio periodo dostojeskiano, perché io, chiaramente, sono russo».
In che senso?
«Il mio modo di vedere le cose è quello, la forma che prediligo è la tragedia ineluttabile, la serietà sbalordita. Sono profondamente solitario e malinconico, la mia presunta brillantezza è solo apparente, il fatto è che, dopo Boris, non ho più avuto la possibilità di fare qualcosa di drammatico. E dire che il mio temperamento è genere Amleto, anzi, Amleto, paragonato alla mia indole da ragazzino, è una sit-com, Bergman è Friends. Diciamo che, anche se non in modo così estremo, io ero Harold di Harold e Maude, e non sto scherzando, anche se non ho mai amato una donna tanto più grande di me».
Cosa rappresenta per lei Boris?
«Per me Boris è la zona dell’esistenza in cui senti che essere venuto al mondo ha un senso. La quantità di goduria, di gioia fisica, di estasi, che mi ha fatto provare quell’esperienza è unica. Sono cresciuto con le persone che hanno scritto Boris, quel personaggio è stato un loro regalo. Boris è un atollo di gratitudine totale nei confronti della mia tribù. Se non ci fossero stati quegli autori, non sarei mai stato chiamato per il ruolo, ero un attor giovane con gli occhioni chiari, venivo cercato per far sognare le ragazze, bisognava sapere quanto sono mattarello per coinvolgermi in quell’impresa».
Il grande successo è arrivato con il Guido Zanin in Un medico in famiglia. Come ha gestito l’esplosione di popolarità?
«Quando parte? Ci vuole un po’ di tempo per rispondere. Allora, il successo è una potentissima sostanza stupefacente, se hai un po’ di familiarità, magari resisti. Altrimenti no. Quando mi è arrivato avevo 30 anni, mi sono trovato, di colpo, a non poter più uscire di casa, e dire che non uscivo già prima... Per fortuna non è capitato a 18 anni, avevo già i piedi per terra, capivo che non avevo fatto niente di eccezionale, solo una serie molto popolare, sono figlio di mio padre e così sono riuscito a circoscrivere il fenomeno. Poi, però, è accaduta un’altra cosa, tutti sapevano chi ero e l’unico che non lo sapeva più ero io. Ho iniziato una lunga serie di pellegrinaggi, ho fatto silenzi, meditazioni, in India e nella foresta nera, esperienze spirituali fortissime, mi sono ripulito da tutto quello che è ambizione malata, desiderio, in quei posti si impara a capire chi si è».
Cosa significa essere attore?
«Per me è una copertura, ho 50 anni, non sono cresciuto con il mito della professione, il mio sogno era fare il calciatore. Per me il mestiere dell’attore è una sintesi felice tra il calcio, lo sport, il corpo, la pioggia di parole di mio padre».
A proposito di padri, sarà ancora il padre di Phaym Bhuyian in Bangla?
«Adoro Phaym, penso che le speranze dell’Italia siano in persone come lui. Quel ruolo era una chicca. Non so se tornerà Bangla, ho l’impressione che quel tipo di comicità non sia esattamente compatibile con il nuovo governo. Peccato, avevo già firmato il contratto, eravamo prontissimi a girare, e invece ci hanno segato la serie. Non è che Meloni sia arrivata e abbia detto di non farla, è che in Rai sono più realisti del re, ci hanno pensato prima».
Uno dei nodi più tragici dell’oggi riguarda la violenza sulle donne. Da dove parte, secondo lei, questa carica così potente di distruttività?
«Secondo me c’entra sempre l’infelicità. Se vi va alla radice delle cose, tutto parte da lì. I violenti sono quelli che si vergognano, quelli ingolfati, ignoranti. La violenza sulle donne, cosa per cui io chiedo scusa a nome della categoria maschi, è, prima di tutte le possibili analisi, nella difficoltà dei maschi di rinunciare alla propria forza. Crescendo, sentiamo questa superiorità fisica, abbiamo lo stesso atteggiamento dell’uomo delle caverne, non siamo cambiati. Così si moltiplicano le possibilità di nuocere, se noi maschi continuiamo a essere felici di vederci allo specchio sudati coi muscoli lucidi e farci l’occhiolino, non cambierà niente».
Come si fa a liberarsi di un retaggio così forte?
«Bisogna studiare, disinnescare quella convinzione di essere più forti, imparare a vergognarsi a testa alta, cosa che, per un maschio, è un traguardo fondamentale. Io, in modo disastroso e scomposto, penso di essermi evoluto, almeno da questo specifico problema».