La Stampa, 8 luglio 2023
Ignazio La Russa contro sé stesso
Ignazio La Russa ha un avversario dispettoso e impertinente. Si chiama Ignazio La Russa. Per distinguerlo lo abbrevieremo in ILR. È sempre lui a fraintenderlo, a mettergli in bocca cose che non ha detto, a dare ai giornalisti che stanno sempre lì di guardia alle sue gaffe la scusa per dire che la seconda carica dello Stato infila una dopo l’altra affermazioni che imbarazzano le istituzioni, il presidente della Repubblica e la presidente del Consiglio, co-fondatrice del suo stesso partito, Giorgia Meloni.
Teniamo sullo sfondo le dichiarazioni, un po’ smentite un po’ corrette un po’ così, sul fascismo, sull’antifascismo nella Costituzione, sul 25 aprile, gli scherzi sul busto di Mussolini, la fiamma che onora la memoria del padre. L’avversario (ILR) dice che le vittime dell’attentato partigiano di via Rasella, fatto che scatenò la rappresaglia nazista dell’eccidio delle Fosse Ardeatina, erano solo «una banda musicale di pensionati alto-atesini»? Ignazio La Russa spiega, si scusa, si giustifica, pare dopo puntuale consiglio di Meloni: «Voglio scusarmi, ho preso per buoni dei resoconti imprecisi, certo che erano nazisti». L’avversario (ILR) dice che sulle accuse di stupro al figlio Leonardo Apache nutre qualche dubbio sulla ragazza, che ha denunciato dopo 40 giorni e aveva tracce di stupefacenti nel sangue? Ignazio La Russa precisa: «Mi dispiace essere frainteso. Lo dico sinceramente. Io non accuso nessuno, men che meno la ragazza». Anche in questo caso, da FdI assicurano che la rettifica sia arrivata dopo un altro intervento di Meloni, stupita dalla nota rilasciata tre ore prima.
Pure perché la premier ricorda benissimo il precedente che in un attimo si è stampato nella testa di tutti. Quando Beppe Grillo si sfogò in un video contro i magistrati che indagavano sulle accuse di stupro rivolte al figlio Ciro da una ragazza ospite nella sua villa in Sardegna. Meloni non dimentica come replicò al fondatore del M5S, e avrebbe voluto tanto che La Russa pure si fermasse a meditare su quali furono le reazioni di FdI: «Umiliazione e degradazione del corpo delle donne, di una cultura che un leader politico dovrebbe considerare aberrante», disse Meloni due anni fa: «Ritengo vergognoso e inaccettabile che la denuncia di stupro fatta da una giovane donna finisca in pasto alla curiosità generale. Una gogna indegna di una società civile». L’eco di quei giorni è stato fortissimo, ieri, quando il presidente del Senato ha deciso in totale solitudine di pubblicare il comunicato a difesa del figlio e Meloni lo ha chiamato per rammentargli il paragone con Grillo.
La Russa poteva fermarsi, tacere e non lo ha fatto. Com’è nel suo stile poco liturgico, rivendicato fin dal primo istante, ha scelto di nuovo di rispondere «Me ne frego» a chi gli faceva notare la carica che ricopre. «Sono presidente del Senato, ma gli italiani non possono dimenticare che io sono innanzitutto un papà» è stata la sua risposta. In realtà tra il comunicato e gli interventi successivi della sua lunga giornata, La Russa ha fatto il papà, l’avvocato difensore, il magistrato inquirente e quello giudicante. Ha smontato le accuse: «Niente di penalmente rilevante» (ecco il giudice); ha cercato prove contro la ragazza: «Aveva consumato cocaina», e per discolpare il terzogenito: «L’ho interrogato a lungo» (ecco l’inquirente); ma da genitore severo ha comunque rimbrottato il figlio trapper, in arte Larus: «L’unico rimprovero che gli faccio è aver portato a casa una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato» (ecco il papà). Poi ha detto quello che a Palazzo Chigi ha fatto sprofondare tutti in un pozzo di vergogna, e cioè che la denuncia «dopo 40 giorni lascia qualche interrogativo» sulla ragazza. In una sola battuta è riuscito a entrare in contraddizione con la sua leader, il suo partito e pure con sé stesso, visto che anche lui da semplice parlamentare votò per il Codice rosso contro la violenza sulle donne che estendeva da sei a dodici mesi il termine per sporgere querela.
Ma il larussismo è anche questo. Patriarcato testosteronico di purissima destra, per cui un figlio gay «sarebbe un dispiacere». Una strafottente teoria sulle donne di un padre di tre figli maschi che appena tre mesi fa trovò questa soluzione sulla parità di genere da contrapporre al femminismo delle quote rosa: «La otterremo quando una donna grassa, brutta e scema rivestirà una carica importante».
Non come la Pitonessa, la Santa, l’amica fascio-glamour Daniela Santanchè. Altro capitolo che impensierisce Meloni. Non solo e non tanto perché le nuove rivelazioni delle indagini sulle società della ministra del Turismo sono uno stillicidio insostenibile per il governo. Quanto per il timore che i magistrati possano arrivare proprio a La Russa. Con Santanchè sono amici da sempre, fanno le vacanze di Natale assieme e in qualche modo lei è una creatura politica dell’ex colonnello di An. Il presidente del Senato è rimasto seduto al suo posto, quando la ministra-imprenditrice è andata a difendersi nell’Aula di Palazzo Madama, nonostante le indiscrezioni sulle consulenze legali di La Russa per l’inchiesta su Visibilia. Ha liquidato la faccenda spiegando di essersi limitato a comporre una diffida contro un socio di Santanchè. Nel partito, però, non fanno che parlare di una riunione avvenuta nello studio legale milanese di La Russa il 5 novembre. È il giorno dopo la notizia, pubblicata sui giornali, che la ministra risultava indagata. Il governo era nato dieci giorni prima, e Santanchè ci era entrata con la delega al Turismo. La Russa era presidente del Senato da due settimane.
Meloni non ha mai digerito che sia stato proprio lui a chiederle di conservare una poltrona per Santanchè. Ai vertici di FdI sanno che il nome del co-fondatore è citato più volte nelle carte dei magistrati, ma si chiedono – e se lo chiede anche la premier – fino a dove potrebbero arrivare le novità della procura. Anche se non fosse indagato - dicono - un suo diretto coinvolgimento sarebbe un disastro per tutti. Per il partito, e per il governo. La Russa-Santanchè sono un brand a Milano, protagonisti di una faida tra eredi missini che Meloni prova a tenere coperta come può. Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse, il nemico di sempre di La Russa, il "barone nero" scomparso nel 2017, undici anni fa rivelò cosa c’era dietro quell’amicizia: «Un patto politico-mondano-commerciale. Ignazio l’ha portata a Milano, l’ha fatta eleggere ed entrare in politica. Daniela sovrintendeva agli eventi, gli ha permesso di darsi una ripulita, di entrare nei salotti buoni e di essere invitato a Cortina e in Sardegna».