la Repubblica, 8 luglio 2023
La vita amara di Rock Hudson nella Hollywood dei bigotti
Un documentario di Stephen Kijak che si rifà al libro di Mark Griffin – intitolato Rock Hudson: All that heaven allowed,racconta l’esistenza di una star che ha rappresentato per tutta la vita l’immagine di qualcosa che non era, per poi diventare in punto di morte il testimone di una tragedia che solo allora la politica americana ha cominciato ad affrontare.
Hudson è stato uno dei simboli della mascolinità americana, riuscendo a nascondere la propria omosessualità sino a quando si rese conto che stava perdendo la propria battaglia contro l’Aids, termine che sino ad allora non era stato neanche pronunciato da Ronald Reagan, che pure gli era amico. Era forse il più solare tra i simboli dell’American way of life, grazie ai film di successo interpretati accanto alle dive più importanti, a cominciare da Doris Day, ma nell’intimo, la vita di Roy Harold Scherer, che cambiò il nome in RoyFitzgerald e poi finalmente in Rock Hudson, era piena di tormenti, paure e frustrazioni. Abbandonato dal padre, abusato da un patrigno alcoolizzato e tenuto in soggezione da una madre gelida e distante, soffriva terribilmente di non poter rivelare la propria omosessualità in un periodo dominato da un puritanesimo miope e bigotto. Hollywood non avrebbe mai consentito di minare alle basi il personaggio di leading man che aveva portato Douglas Sirk ad affermare: «L’unica cosa che non mi ha mai deluso a Hollywood è stata la macchina da presa. E non sbagliava su Rock Hudson».
Griffin scrive che la sua vita era caratterizzata da una “quieta disperazione”: quando il tabloid Confidential minacciò di rivelare la verità, la Universal pagò 10.000 dollari per mettere tutto a tacere e l’agente Henry Wilson gli impose di sposare la segretaria Phyllis Gates nonostante Hudson avesse una relazione con Jerome Robbins. Il matrimonio riuscì ad allontanare le voci e lo legò a doppio filo con l’agente, il quale gli impose un contratto capestro, accentuando la sua quieta disperazione. Il libro e il documentario raccontano la superficie splendente e la realtà nascosta di questo divo che volle ostinatamente divenire un attore e riuscì, nonostante un talento modesto, ad acquisire una tecnica sufficiente per ottenere una candidatura all’Oscar per Il Gigante, dove recitò a fianco di Elizabeth Taylor,la quale se rimase sua amica nel momento finale della malattia, quando tentò di curarsi in Francia, all’epoca all’avanguardia nelle ricerche sull’Aids. Nel momento in cui annunciò di essere giunto alla fase terminale, l’ospedale nel quale era ricoverato si svuotò immediatamente equando decise di rientrare negli Stati Uniti nessuna compagnia aerea lo accettò come passeggero, costringendolo a prenotare un intero volo solo per lui. Fu quello il momento in cui Elizabeth Taylor fece un appello al presidente Reagan perché prendesse posizione pubblica riguardoall’Aids e la sua morte cambiò drasticamente l’approccio all’epidemia, non solo da un punto divista politico ma anche dei finanziamenti per la ricerca. Sono pochi i suoi film passati alla storia, e nonostante sia riuscito a non sfigurare in melodrammi di culto come La Magnifica Ossessione, il divo risulta meno interessante dell’uomo. Ma tra i pregi di questa riscoperta c’è l’opportunità di rivivere e analizzare il periodo in cui Hollywood ha dimostrato il vero significato del termine fabbrica dei sogni.