Tuttolibri, 8 luglio 2023
Su "Weyward" di Emilia Hart (Fazi)
Nella prima versione del Macbeth contenuta nel First Folio, ovvero la prima edizione a stampa delle opere di William Shakespeare, compare il sostantivo «Weyward», attribuito alle tre Streghe che predicono al generale Macbeth che diventerà Re di Scozia. Successivamente, Weyward è stato trascritto come Weird, che in scozzese arcaico significava «connesso con il Fato». Da qui il motivo per cui le tre Streghe di Macbeth, le Weird Sisters appunto (assimilabili alle parche della mitologia greco-romana) sono tradotte in italiano con «Sorelle Fatali».
E cosa fa Emilia Hart, giovane e intrepida scrittrice australiana che già ha fatto mirabilie nel mercato editoriale anglosassone? Recupera il termine Weyward e ne fa il cognome di una dinastia matrilineare di donne che, nei secoli, hanno mantenuto e preservato la loro intima connessione con il fato. Ma anche e soprattutto con la natura e con gli animali. «Era stato quello spirito selvaggio a darci il nostro nome. Erano stati gli uomini a definirci così, in un’epoca in cui il linguaggio non era altro che un germoglio che spuntava dalla terra. Weyward, così ci avevano chiamato, quando non ci sottomettevamo, quando non ci piegavamo al loro volere. Ma avevamo imparato a portare il nostro nome con orgoglio».
Ed ecco chi sono le tre Weyward, sorelle attraverso i secoli ma in realtà l’una antenata dell’altra - tre donne ma anche, simbolicamente, tre creature animali. La prima è Altha, la guaritrice, che nel 1619 è a processo per stregoneria – nulla di strano, data l’epoca storica in cui imperversava la caccia alle streghe in tutto il nord Europa fino anche oltreoceano. Altha è il corvo. La seconda è Violet, che nel 1942 ha sedici anni e ha sempre vissuto a Orton Hall, dove il padre, il nono visconte di Kendall, la tiene sostanzialmente segregata - che lei ne sia consapevole o no; Violet è la damigella. La terza è Kate, che ai giorni nostri è in fuga da un compagno violento e da una relazione malata; Kate è l’ape.
Il Weyward Cottage, in Cumbria (Nordovest dell’Inghilterra, al limite con la Scozia) è il luogo in cui ciascuna di queste donne ha trovato riparo: «L’ingresso è angusto e il soffitto basso. Una nuvola di polvere si alza dal pavimento a ogni passo che fa, come a darle il benvenuto. Le pareti sono rivestite di carta da parati colore verde pallido, che è quasi nascosta da schizzi incorniciati di insetti e animali… In fondo alla casa trova un soggiorno vetusto, con una parete occupata dalla cucina. Sopra il fornello, che sembra vecchio di secoli, sono appesi una serie di pentole di rame annerito e dei mazzi di erbe essiccate. I mobili sono belli, ma logori: un divano verde sfondato, un tavolo di legno di quercia circondato da un assortimento di sedie scompagnate… Un angolo del soffitto è ricoperto di ragnatele così fitte che sembrano messe lì apposta». Una casetta nel bosco da fiaba dei Fratelli Grimm, che non a caso ricorrono nel romanzo come un’eco essendo la lettura preferita di Violet e di Kate da bambine. E lo sappiamo tutti che le fiabe dei Fratelli Grimm contengono un germe di macabra oscurità, che pure non manca a Weyward, che in definitiva è una storia sì di resilienza femminile, ma anche di coraggio identitario. Storia cui la Hart infonde l’elemento magico, che è ben più che decorativo. Siamo infatti abituati a leggere storie di caccia alle streghe in cui l’inquisita è innocente. Del resto la stregoneria non è mai esistita. Ma la Hart è originale proprio perché ribalta la prospettiva: una Weyward, un po’ strega lo è davvero. Più che un po’. E lo è in virtù della fusione con le radici della terra e con lo spirito istintivo e protettivo del mondo animale. E se quindi l’innocenza e la colpevolezza coincidessero? È possibile? In Weyward sì.
Perché è un romanzo fortemente emotivo, in cui si avvertono l’urgenza e la freschezza dell’immaginario dell’esordiente ma anche i rimandi che lo hanno coltivato – a Margaret Atwood su tutti, come la stessa Hart riconosce nei ringraziamenti finali. Rimandi che però stempera con una visione personale più ottimista e salvifica, per cui alla fine il sapore che resta una volta chiuso il libro è quello di una storia edificante in cui tutto è andato esattamente come doveva, nel bene e nel male. «Per quanto non voglia ammetterlo, l’inoppugnabile verità nel mio cuore è che sono orgogliosa di ciò che ho fatto. E così non fuggirò, ho deciso. Neanche se gli abitanti del villaggio dovessero venire a cercare giustizia. Non possono costringermi a lasciare casa mia. Non mi fanno paura. Dopotutto sono una Weyward, e sono selvaggia dentro».