Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  giugno 12 Lunedì calendario

Biografia di Malcolm McDowell (Malcolm John Taylor)

Malcolm McDowell (Malcolm John Taylor), nato a Leeds (Inghilterra, Regno Unito) il 13 giugno 1943 (80 anni). Attore. «Dietro ogni villain c’è una storia, una innocenza violata. Sono personaggi disturbanti, come è disturbante la vita. Meglio però guardare in faccia le cose, parlarne, mostrarle, che tenerle nascoste» • «Venivo da una famiglia operaia: mia madre faceva l’albergatrice e mio padre gestiva un pub. Non avevo tempo di vivermi la fanciullezza» (a Filippo Brunamonti). «Sono cresciuto a Liverpool, ma ho messo piede a The Cavern solo grazie alla mia fidanzata di allora, che mi ci ha letteralmente trascinato. “Devi vederli, devi assolutamente vederli: hanno i capelli lunghi come i tuoi, si chiamano The Silver Beatles”. E devo dire che, quella serata, non la dimenticherò mai, perché mentre loro suonavano noi sembravamo tutti impazziti. Si sono esibiti più di 300 volte a The Cavern, e tutto questo prima di incidere un disco». «Se non sbaglio anche lei ha iniziato cantando… “Sì, con un musical, a scuola. Avevo circa undici anni, frequentavo un noioso collegio maschile dove mi costringevano ad andare a messa tutte le domeniche… non ne potevo più! L’unica cosa divertente era cantare gli inni. Un giorno, il direttore della scuola mi chiamò nel suo studio. Ero convinto che volesse picchiarmi, invece, quando entrai, iniziò a suonare e disse: ‘Dai, canta! Bravo, sarai Aladino nel musical scolastico! Sei contento?’. Non ero affatto contento! Mi aspettavano settimane di prove mentre i miei amici se la spassavano! Poi però accadde qualcosa di magico: venne il giorno della recita, salii sul palco e mi sentii completamente a mio agio, rilassato. Capii che quella sarebbe diventata la mia professione”» (Barbara Zorzoli). In seguito iniziò a prendere lezioni di recitazione, mantenendosi autonomamente, dapprima a Liverpool, quindi a Londra: «Ho lavorato in una fabbrica di noci, poi ho fatto il rappresentante di una ditta di caffè». «Io ero un giovane attore che faceva teatro e cercava disperatamente di guadagnarsi da vivere. Molti di noi facevano i fattorini, praticamente i rider di oggi, perché girando per Londra trovavi il tempo di andare ai provini. Tutti gli attori a Londra cominciano dal teatro. Fare un film era una benedizione, perché con un film paghi i conti di un anno intero». «La sua favolosa carriera ha rischiato di nemmeno iniziare, quando nel ’67 Ken Loach gli taglia al montaggio i suoi due minuti in No Tears for Joy [titolo alternativo di Poor Cow – ndr]» (Mario Serenellini). «Qual è stata la svolta nella sua carriera? “Quando stavo per abbandonare la Royal Shakespeare Company – perché mi davano solo ruoli insignificanti, quando, dannazione, se reciti Shakespeare devi avere una parte principale! – e al tempo stesso recitavo nella serie tv Sat’day While Sunday, dove avevo soffiato la parte a Timothy Dalton. Sentivo la mia occasione vicina, e infatti andai all’audizione di un certo Lindsay Anderson. Il film era If…, premiato con la Palma d’oro nel 1969”» (Zorzoli). «“Ho amato il film ancora prima di leggere la sceneggiatura: mi sentivo addosso il personaggio, era perfetto il clima del set, era bellissimo il rapporto con il regista. Resta il mio film preferito: non ho mai più fatto un film in condizioni così ideali”. […] Lo sguardo ha la stessa luce di sfida e di impudente ironia di Mick, il giovane che guida la rivolta degli studenti nel college inglese di If… di Lindsay Anderson. […] Si incontrarono alla fine degli anni Sessanta, quando si vivevano gli ultimi entusiasmi del free cinema ed era imperante l’influenza degli arrabbiati. […] Con Anderson, McDowell è cresciuto insieme al personaggio di Mick, portando la sua ribellione in O Lucky Man!, poi in Britannia Hospital, ed è sempre a lui che deve il suo più grande successo a Broadway, quando fece piangere il pubblico con la riproposizione aggiornata di Ricorda con rabbia» (Maria Pia Fusco). «Senza If…, Clockwork Orange di Stanley Kubrick […] non sarebbe mai esistito. […] “Kubrick aveva accantonato il progetto di filmare il romanzo di Anthony Burgess perché non riusciva a trovare l’attore giusto”, racconta McDowell, […] “finché a casa non si fece proiettare con sua moglie Christiane il film di Lindsay Anderson. Con l’interfono, chiese al proiezionista di far ripartire il film dall’inizio. Lo ha visto quattro volte di seguito, poi ha guardato Christiane e le ha detto: ‘Lo abbiamo trovato!’”» (Teresa Marchesi). «Il primo incontro? “Mi aveva visto in If… e invitato a casa sua per il lunch. Aveva gli occhi neri. Molto amichevole. Abbiamo parlato di tutto e di niente. Mi ha detto che avrei dovuto leggere il libro di Burgess. Dura lettura. Sa, all’epoca ero giovane. Ma, a un cento punto, la scoperta: è una storia straordinaria!”» (Serenellini). «“Dopo la terza lettura l’ho chiamato e gli ho chiesto direttamente se voleva darmi la parte. È una cosa che non si fa, di solito si aspetta che sia l’agente a dirtelo, ma non sono riuscito a trattenermi”. Conosciamo la sua risposta. Dopo cosa avvenne? “Andavo a casa sua due o tre volte a settimana e ci passavo delle ore, semplicemente unendomi a qualunque cosa stesse facendo. […] Facevamo di tutto tranne che parlare del personaggio: lui presumeva che ci sarei arrivato da solo. Una volta glielo chiesi direttamente, e lui mi rispose ‘Beh, è per questo che ti ho assunto’, e se ne andò. All’inizio ci rimasi un po’ male, ma poi capii che mi aveva fatto dono di una grande libertà”. […] “Dopo una di quelle sere passate a casa sua, Kubrick mi stava accompagnando alla mia auto e mi disse: ‘Secondo te Alex cosa indosserebbe? Ti viene in mente niente?’. Io ero in jeans e maglietta, ma in macchina avevo un’uniforme da cricket. ‘Mettitela un po’’, mi fa. ‘Quello cos’è?’. ‘È la conchiglia’, gli spiegai, ‘il protettore inguinale’. Lui allora mi disse ‘Prova a metterlo all’esterno’, e quella fu l’idea che generò il costume bianco. Le ciglia finte, le avevo comprate per gioco in una boutique e le feci vedere a Stanley. Lui mi fece un sacco di foto. Provammo a metterle su un occhio solo, e alla fine usammo quel look. L’ultimo tocco fu la bombetta, che sfotteva abbastanza apertamente i businessmen della City”» (Luca Celada). «La richiesta del ruolo era prendere questo ragazzo immorale e renderlo piacevole al pubblico senza tradire il personaggio. Era una grande sfida. La stampa liberale, tipo il New York Times, attaccò il film dicendo che era fascista perché rendeva piacevole, persino divertente, un uomo cattivo. Insomma, avevo fatto il mio dovere». «È stato aiutato nella preparazione del ruolo? “Non da Kubrick. Era uno dei più grandi registi al mondo, ma non dirigeva gli attori. Io non avevo alcuna idea. Problema: come rendere simpatica una canaglia? Sono stati Burgess e Anderson a darmi la chiave. Lo scrittore ha insistito sull’amore per la musica classica, in particolare per Beethoven. Al regista è bastato richiamarmi al piano di If… dove mostro quel sorriso enigmatico al limite della sfida: ‘Rifai quel sorriso fine, esaltato da una sguardo limpido e sicuro’”» (Serenellini). Vari gli spunti di McDowell accolti dal regista. «La scena della violenza di gruppo in villa ci ha paralizzato a lungo. Abbiamo cambiato i mobili, le attrici, per giorni. Poi Stanley mi ha chiesto: ‘Puoi ballare?’. Ero devastato dalla noia, così sono saltato in piedi, ho messo Singin’ in the Rain e con quel ritmo ho cominciato a prendere a calci lo scrittore. Stanley si è messo a ridere così forte che lacrimava. Una volta a casa, ha acquistato i diritti per usare la canzone». «“Un anno dopo l’uscita, a Los Angeles, mi invitarono a una festa con la vecchia Hollywood. C’era anche Gene Kelly, che girò i tacchi e se ne andò senza darmi la mano. All’amico che me lo aveva presentato dissi: devo chiedergli scusa di qualcosa? No, rispose, solo che gli hai rovinato la scena più famosa della sua carriera, sporcando il suo ballo gaio e festoso. Okay, dissi, però in Arancia meccanica funzionava”. Altri aneddoti così belli? “La scena sul letto d’ospedale, quando il ministro degli Interni accorre per vedere i miei progressi dalla folle violenza di cui ero stato prigioniero, e vuole imboccarmi… Stanley era ansioso, stava sulle spine. Io per velocizzare le cose pensai di aprire meccanicamente la bocca, di spalancarla in maniera ossessiva mentre mi davano da mangiare pezzi di bistecca uno dopo l‘altro. Stanley rideva, io masticavo, e ho capito che non avrebbe seguito la sceneggiatura in quella scena”» (Valerio Cappelli). «Fu un trauma invece la “cura Ludovico”, a palpebre atrocemente spalancate. “Finché si girava, ero sotto anestetici: il problema era dopo, a casa. Il mio amico dottore che abitava dietro l’angolo doveva aiutarmi con la morfina”. Kubrick capiva il prezzo fisico che pagavi? “Ovvio, ma era un pochino sadico, solo un po’. E io, da principiante con un grande ruolo, abbozzavo”» (Marchesi). «Il rapporto con il regista? “Non è stato facile, in fase di montaggio abbiamo avuto dei disaccordi, alcune cose non mi piacevano. Ma posso dire di averlo amato, e dal film traspare. Era un uomo straordinario, un genio che ha creato capolavori”. […] Si dice che, economicamente, Arancia meccanica per lei non sia stato esattamente una svolta… “Verissimo. Avrei dovuto guadagnarci ben di più, ma Kubrick non mi ha mai pagato il 2,5% promesso… Però ci ho guadagnato una carriera”» (Silvia Bizio). «Non mi pento di aver lavorato con lui, un genio, ma mi colpì che dopo il film non mi abbia mai più chiamato». «Kubrick ricevette insulti e lettere minatorie di ogni sorta per Arancia meccanica. “Così diceva. Io però non le ho mai viste (ride). Anch’io ho avuto i miei stalker, e una valanga di lettere di signore con foto senza vestiti. Anche di uomini, se è per questo (ride)”. […] Tra le vittime di questa seduzione via schermo ci fu la principessa Margaret. “Quando ci mettemmo a tavola, mi ordinò: tu siediti qui. Fumando a raffica, mi interpellò con queste parole: ‘Così, hai fatto un film su uno stupro?’. E io: ‘Beh, non solo su uno stupro…’”. Accadde senza preavviso l’incontro: “Mi chiedono se ho una cravatta, mi caricano su un taxi senza dirmi dove stiamo andando e mi ritrovo a Kensington Palace. Una guardia molto friendly mi dice di aspettare. La principessa è in ritardo. Chiedo se posso sedermi, ma è vietato finché non arriva lei. Assurdo”. “Bellissimi occhi, per inciso, aveva Margaret: era molto più bella di persona che in fotografia. E il suo matrimonio stava andando a rotoli. Ma lo chaperon mi bisbiglia in un orecchio: ‘Si aspetta che tu vada via con lei’. ‘Non ci vado’, faccio io, ‘proprio non se ne parla’. Mi guardano male: non si può rifiutare. Sono scoppiato a ridere: ‘Cosa fate se non vado, mi rinchiudete nella Torre di Londra?’”» (Marchesi). «Arancia meccanica ha fatto di Malcolm McDowell una star internazionale, però “mi ha dato anche una forma di paranoia, perché venivo identificato totalmente con il personaggio, anche dalla gente per la strada. Sono stato un anno in campagna, senza lavorare, pensando addirittura di non fare più cinema”» (Fusco). «La forza del celebre film […] conferisce all’attore, perfettamente in parte, una sorta di aura, se non proprio da “maledetto”, comunque fortemente anticonvenzionale. In questa chiave lo utilizzano successivamente L. Anderson nello psichedelico O Lucky Man! (1973) e N. Meyer in L’uomo venuto dall’impossibile (1979). Nel 1980 T. Brass gli affida il ruolo del folle imperatore romano nel plurisequestrato Io, Caligola, e ancora personaggi estremi sono quelli di Il bacio della pantera (1982) di P. Schrader e La morte avrà i suoi occhi (1987) di A.A. Seidelman. Gli anni appesantiscono un po’ il suo aspetto ferino e inquietante e lo inducono a ripiegare su ruoli più di routine, per quanto sempre efficaci, dal fantascientifico Generazioni (1994) di D. Carson al comico Mr. Magoo di S. Tong (1997) e allo pseudo-documentaristico The Company (2003) di R. Altman, dove è il direttore del Joffrey Ballet di Chicago. Lo si vede anche in un cammeo in In Good Company (2004) di P. Weitz, nel ruolo del serial killer protagonista di Evilenko (2004) di D. Grieco e in Halloween – The Beginning (2007) di R. Zombie» (Gianni Canova). Da ultimo, tra l’altro, «“in Gran Bretagna ho […] girato una serie comica con Nick Frost, Truth Seekers, un Ghostbusters in salsa britannica. E poi c’è il film di Davide Ferrario Blood on the Crown, girato con Harvey Keitel, sulla rivolta di Malta contro gli inglesi”. E lì lei che ruolo fa? “Il cattivo, naturalmente”» (Giuseppina Manin). «Sogni? “Ne avevo uno, lo sto realizzando. Non avevo ancora mai girato un film western, esperienza che qualunque attore prima o poi deve fare. In Last Train to Fortune sono un maestro elementare caduto in disgrazia: viene espulso dalla scuola in Inghilterra e va in Usa, prende un treno ma perde la coincidenza e si ritrova in un capannone abbandonato in mezzo al nulla dove incontra un cowboy armato che si offre di accompagnarlo nel suo viaggio. Poi vorrei fare un film sui vampiri”» (Cappelli) • Due figli dalla seconda moglie e tre dalla terza e attuale consorte. «Vita-vacanza divisa tra Ojai in California e il casolare di sua proprietà in Toscana, nel Chianti» (Serenellini) • Gran tifoso del Liverpool • «Fin da piccolo ero un cinico incallito. L’aldilà è qualcosa che non mi ha mai affascinato. Noi arriviamo dal nulla e ci torneremo» • «Cosa la disturba? “Il sangue gratuito al cinema: non mi piacciono i film horror, anche se ne ho fatti uno o due. Poi sono disturbato da quello che succede nel baluardo della democrazia, gli Stati Uniti. L’America è stata infettata e soggiogata da un idiota che si chiama Trump. Un uomo egocentrico e narcisista che si crede un semidio mentre è un cretino”» (Cappelli) • «Allegro, irriverente, scanzonato, con un grande sense of humour» (Zorzoli). «Sempre, sotto i capelli bianchissimi e la fronte che di anno in anno si sgrana, continua a saettare lo sguardo blu di Alex» (Serenellini) • «Nella prima parte della sua carriera, McDowell ha creato attraverso i suoi ruoli uno stile di recitazione raramente raggiunto con tale perfezione: un volto espressivo dominato da occhi azzurri dalle mille sfumature, il carisma di un puma, un’agilità nei gesti e nell’andatura. Se ci divertissimo a cercare metafore animali per la sua postura in continuo movimento, definiremmo subito l’attore un felino-camaleonte, un’altra specie. Questa dualità si esprime anche attraverso il corpo asciutto e flessibile di McDowell, che ha l’energia inesauribile del corpo di un rocker. […] L’intera sfida delle molteplici interpretazioni di Malcolm McDowell nel resto della sua carriera sarà quella di preservare questa forma di equilibrio tra i suoi personaggi violenti e altri più candidi, al confine tra il bene e il male. Come una granata sganciata, che minaccia di esplodere da un momento all’altro, l’attore ha spesso espresso questo campionario di colori rendendo simpatico ogni ruolo violento, e al contrario, inquietante l’eroe più innocente» (Bernard Payen) • «Di lei dicono sia un attore brechtiano. Ci si ritrova? “Lindsay Anderson era convinto che lo fossi. Diceva: il pubblico sa che stai recitando eppure ti credono. Non sono affezionato ai ruoli naturali, da documentario. Gli americani sono fissati con il ‘metodo’. Io preferisco il teatro”» (Brunamonti). «Faccio l’attore e sono abituato a non portare a casa mai nulla di quello che divento sul set. Pensate un po’ che cosa succederebbe se una moglie fosse costretta a sedersi a tavola per la cena con un tipo come Alex oppure […] con uno come Evilenko!». «Mi rendo credibile senza artifici e avverto la necessità, ogni volta, di mettere umanità nei miei personaggi, anche in quelli più cattivi. Perché solo così la maschera orribile si evidenzia» • «Come giudica oggi, Malcolm McDowell, il suo Alex di Arancia meccanica? “Nel libro di Anthony Burgess, da cui è tratto il film, è un delinquente, che fa scelte di vita orrende. Ma credo di avergli iniettato un’infezione positiva, la gioia di vivere. Lui non è cattivo: è solo il prodotto del suo ambiente, del modo in cui è stato cresciuto”» (Serenellini) • «Le storie più pericolose sono quelle dove l’atto sanguinario è gratuito. Un esempio del passato? Berretti verdi con John Wayne, dove il buono è moralmente autorizzato a uccidere. Oppure le tante sit-com televisive dei nostri giorni dove una violenza più o meno mascherata genera approvazione, emulazione. Arancia meccanica ragionava sulla violenza, l’analizzava, la sezionava criticamente» (a Leonardo Jattarelli) • Particolarmente devoto alla memoria di Lindsay Anderson (1923-1994), che ha definito «la persona che ha cambiato la mia vita»: «“È stato il mio mentore, ma anche un amico, e forse anche un padre. Era un regista straordinario: mi ha fatto conoscere il cinema di Ford, Kurosawa, Hawks. I miei preferiti? Capra, Wyler, Sturges e Lean”. C’è un suo film a cui è particolarmente legato? “Sì. O Lucky Man!, che parla di quando vendevo caffè nello Yorkshire”» (Zorzoli) • «Faccio solo parti che non ho mai fatto prima. Ogni attore dovrebbe sempre sperimentare» • «Ma che artista e artista. Io al massimo sono un artigiano. Nella mia carriera ho interpretato tanti bei film, ma anche tante schifezze. Del resto, bisogna pur vivere». «Il cinema è lavoro e basta. Ho bisogno e voglia di lavorare. […] Sono pieno di passione, mi sento come un olimpico del cinema. Laurence Olivier, Ralph Richardson, John Gielgud, Peter O’Toole sono i miei esempi. Finché c’è salute, non ci si può tirare indietro» • «Ha sempre avuto un debole per i progetti rischiosi, provocatori. Riflettendo a posteriori sulle sue scelte di attore, è soddisfatto della sua carriera? “Sì, perché ho sempre voluto essere al timone della mia barca e sentirmi libero di scegliere ciò che volevo in quel momento. Forse ho fatto scelte sbagliate, soprattutto dal punto di vista commerciale, ma c’era sempre una ragione per me molto convincente”» (Alessandra Venezia).