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 2023  giugno 19 Lunedì calendario

Biografia di Stephen Frears (Stephen Arthur Frears)

Stephen Frears (Stephen Arthur Frears), nato a Leicester (Inghilterra, Regno Unito) il 20 giugno 1941 (82 anni). Regista. Vincitore, tra l’altro, dell’Orso d’argento al miglior regista nel 1999 (per The Hi-Lo Country). «I miei connazionali mi considerano un veterano eccentrico, un camaleonte. Non mi amano. […] Io mi considero un bambino viziato che gira film dove può e dove glieli offrono. Sono eclettico, che male c’è? È solo un problema di ragionevolezza. La vita è troppo breve per dire di no. E poi io non credo al mito del regista-autore» (a Sandro Rezoagli) • «Nato a Leicester […] e […] intollerante verso quella città, dove, dice, “ci sono solo dottori e insegnanti, e la sola cosa che ispira è la voglia di fuggirsene via”» (Simonetta Robiony). Famiglia borghese. «Mia madre è stata una donna molto forte: ha tirato su tre figli da sola durante la guerra» (a Maria Pia Fusco). «“Sono un regista per caso. Da giovane, mai m’era passata l’idea per la testa: non sospettavo nemmeno che esistesse il mestiere di cineasta. Me ne stavo tranquillo, e annoiato, al Trinity College dell’Università di Cambridge, dove mi ero trasferito a 18 anni dal paesello natale di Leicester, a studiare Giurisprudenza. È lì che ho cominciato a frequentare il teatro, da cui mi son fatto docilmente sequestrare, anche perché avevo capito che con le regie si poteva mettere in tasca qualcosa”. Nella sua “via di Damasco” c’eran già stati preallarmi? “Il London Film Festival, che nel 1957 a me sedicenne aveva spalancato un mondo nuovo: il cinema europeo, soprattutto italiano e francese. È stato l’inizio di una passione, per Renoir, la Nouvelle Vague, per quei registi che tutti amiamo: i primi che parlavano della nostra realtà sociale, i maestri del mio cinema e di altri della mia generazione”» (Mario Serenellini). «“Sono cresciuto con il cinema americano: da ragazzo andavo al cinema cercando divertimento e basta. Poi, crescendo, ho perduto quella gioia così pura, ma ho trovato altri valori. Non dimenticherò mai l’emozione della prima volta in cui vidi Ossessione, uno choc esaltante. E poi ho scoperto nel cinema americano altre emozioni, tante storie e tanti autori. Gli autori della ribellione, per esempio”. Alla scuola della ribellione Stephen Frears è cresciuto, lavorando negli anni Sessanta con il gruppo di Albert Finney, Karel Reisz, Lindsay Anderson» (Fusco). «Prima del cinema, lei ha navigato in tv, nella magica èra Bbc. “Sì, dopo essere stato assistente di Karel Reisz vi avevo scodellato nel ’72 il primo titolo, Sequestro pericoloso. È stata, per tutti, un’età d’oro: precedente all’età di ferro di Lady Thatcher. Una Gran Bretagna modellata a Paese socialista, con uno Stato protettivo delle produzioni Bbc e di ogni forma di cultura. Ma anche su di noi s’è rovesciata presto l’ossessione del profitto, dei grandi numeri, con tutti i meccanismi del capitalismo: che vita dura, dopo”» (Serenellini). «Il debutto nel lungometraggio avviene nel 1972 con Gumshoe (Sequestro pericoloso), ma per il film successivo, il thriller Il colpo (1984), deve attendere ben dodici anni. Il successo gli arride nel 1985 grazie a My Beautiful Laundrette» (Gianni Canova). Realizzato a partire da una sceneggiatura di Hanif Kureishi («Trovai lo scritto di Kureishi nella buca delle lettere, e devo dire che quello fu un giorno particolarmente fortunato»), «è il film che l’ha consacrato a livello internazionale: girato in economia e in 16 millimetri per la televisione privata britannica Channel 4, descrive la storia d’amore tra un giovane pakistano che rileva una lavanderia nei sobborghi di Londra e un ex compagno di scuola. Nel cast si segnala Daniel Day-Lewis, […] all’epoca agli inizi della carriera» (Daniele Cavalla). «È il film che ritrae la brutalità sociale della Gran Bretagna nell’èra Thatcher. Per uno di quei paradossi insondabili che si fan beffe di noi e delle nostre migliori intenzioni, il mio durissimo attacco al thatcherismo s’è ribaltato, grazie al successo del film, in un punto a favore della politica mediatica della Lady di ferro: ecco la prova d’un prodotto di qualità ma, quel che più conta, dal sicuro ritorno commerciale. Insomma, una bella soddisfazione ma anche un boomerang per me». «Dopo Prick Up – L’importanza di essere Joe (1987), film biografico sulla vita del commediografo omosessuale J. Orton, e Sammy e Rosie vanno a letto (1987), ancora una storia d’amore interrazziale, questa volta eterosessuale, approda a Hollywood per la trasposizione del romanzo epistolare settecentesco di Choderlos de Laclos Le relazioni pericolose (1988), storia dell’amore manovrato dal cinismo e dalla perfidia e interpretato da G. Close, J. Malkovich e M. Pfeiffer. Sempre negli Stati Uniti, realizza nel 1990, con la produzione di M. Scorsese, la sua opera migliore: Rischiose abitudini, un noir teso, cattivo e moderno, tratto da un romanzo di J. Thompson. Alternando la sua attività fra Hollywood e il Paese natio, realizza ancora diverse pellicole, tra le quali Mary Reilly (1996), dove le vicende del dottor Jekyll sono filtrate attraverso lo sguardo della sua governante, la donna del titolo, Due sulla strada – The Van (1996), acida commedia su due quarantenni disoccupati che vendono hamburger durante i mondiali di calcio del 1990 alla periferia di Dublino, e The Hi-Lo Country (1998), western postbellico che non ha avuto l’attenzione che avrebbe meritato. Miglior fortuna arride invece ai successivi Alta fedeltà (2000), briosa commedia sentimentale adattata dall’omonimo romanzo di N. Hornby, e Piccoli affari sporchi (2002), cupo ritratto di una Londra multietnica in cui non c’è più traccia di solidarietà neppure fra gli immigrati» (Canova). Grande successo di critica e di pubblico riscosse nel 2006 The Queen – La regina, pellicola che «raccontava il momento drammatico vissuto dalla monarchia subito dopo la morte di Lady Diana. Elisabetta II era Helen Mirren, che vinse l’Oscar e la Coppa Volpi come miglior attrice protagonista. Un film capace di tracciare il ritratto di una donna forte ma divisa fra ragion di Stato e sentimenti. Poca retorica e molta umanità» (Federica Lamberti Zanardi). «Non sono mancati gli ostacoli, preventivi, quando nel 2006, con The Queen, tra mille acrobazie, sono entrato nei luoghi augusti e angusti del regno britannico, per trarne un ritratto meno imbalsamato di Elisabetta II e della famiglia reale nei giorni del crash di Lady D. Quando è morta ero in Messico a girare un western. Ne ho percepito la tragedia, ma ho perso l’evento. Il film, infatti, è sulla quotidianità della monarchia, non sulla fatalità di un’auto principesca finita in un tunnel». «E allora perché ha voluto a tutti i costi realizzarlo? “Per quello scrupolo missionario che accomuna insegnanti e registi: insegnare come stare al mondo”» (Serenellini). Cineasta prolifico, negli anni successivi Frears, oltre a collaborare ad alcune produzioni televisive, ha diretto vari film, tra cui Chéri (2009), trasposizione dell’omonimo romanzo di Colette, Philomena (2013), «storia di una donna irlandese che lotta contro la Chiesa per riavere il figlio», The Program (2015), sulla controversa parabola umana e sportiva del ciclista Lance Armstrong, Florence (2016), «storia della peggiore cantante che abbia mai cantato alla Carnegie Hall», e Vittoria e Abdul (2017), sull’insolito rapporto tra la regina Vittoria del Regno Unito e il suo segretario indiano Abdul Karim. Del 2022 è infine The Lost King, «incredibile storia vera di Philippa Langley, grazie alla quale solo nel 2012 furono ritrovate le spoglie mai rinvenute di re Riccardo III e fu riscritta la vicenda di un regnante considerato usurpatore e cattivo secondo la versione del dramma di Shakespeare. […] “Ho avuto un piacere enorme nell’attaccare la ‘verità’ di Shakespeare”, […] ha detto Frears» (Alessandra Magliaro) • Nessuna esperienza da sceneggiatore. «Come diceva Billy Wilder, per un regista non è importante saper scrivere, ma saper leggere» (a Veronica Raimo) • Quattro figli: due dalla prima moglie, due dalla seconda e attuale consorte • Repubblicano, progressista. «Sono borghese e inglese, che è peggio che essere britannici: c’è la fatica di lottare contro una mentalità chiusa, ristretta, tutto sommato ancora imperialista». «La monarchia non è certo la tazza da thè di Frears. Che però, firmando due film corrosivi come The Queen e […] Vittoria e Abdul, di fatto ha salvato la regina meglio di James Bond. Due sguardi irriverenti sulle tante miserie e le poche nobiltà della vita di corte, ma anche due ritratti di grandi regine. Il mito ne è uscito rafforzato. “È vero”, sospira Frears. […] “Più che la corona detesto la corte, quell’ottusità ridicola con cui imprigiona i sovrani e li rede anacronistici”. Difatti, pur graffiando la monarchia, i suoi film lasciano trapelare una certa simpatia per la regina. “Sono inglese, la regina fa parte della nostra vita da quando nasciamo. È sui francobolli, dappertutto. La regina è come la mamma: a volte ci litighi ma le vuoi bene”. […] E la monarchia sopravvivrà a Elisabetta II? “Dipende da Carlo. Sarà divertente vedere cosa accade. Potrebbe essere un bel film…”» (da un’intervista rilasciata a Giuseppina Manin nel 2018). Fortemente contrario alla Brexit. «“Penso che nella insensata battaglia contro l’Europa ci sia il tentativo di far rivivere un impero che non esiste più. La stessa cosa che è avvenuta con la guerra delle Falkland nel 1982”. Lei non è stato morbido nemmeno con i laburisti. Quando Tony Blair era primo ministro, lo accusò di essere un bugiardo. Lo pensa ancora? “Sì. È stato un vero sciocco. Quando ci fu la guerra in Iraq era convinto che schierarsi con gli Usa fosse giusto. È stata una catastrofe”. […] “Io non aderisco a nessun partito o gruppo di pensiero. Sono un uomo libero e seguo soltanto i miei valori”. E quali sono? “Cose molto semplici: la tolleranza, il senso dell’umorismo, la gentilezza, l’amore”» (Lamberti Zanardi). A proposito della guerra russo-ucraina, ha dichiarato che Putin «sta facendo una cosa stupida: la sua è autodistruzione. Se poi lo faccia perché è pazzo o molto malato, non lo sappiamo, ma è una cosa stupida» • «Sono stato battezzato e poi ho scoperto di essere ebreo [scoprì da adulto che la madre era ebrea – ndr]. Ma non sono mai stato osservante» (a Cristina Battocletti). Ha espresso simpatia per papa Francesco. «Io ricordo che quando incontrò la vera Philomena Lee [la donna la cui storia ha ispirato Philomena – ndr] fu un giorno meraviglioso. Sì, mi piace papa Francesco» • «Grandi occhi azzurri su una faccia allungata e tagliata da una bocca stretta» (Rezoagli). «Glenn Close, che fu la sua temibile marchesa di Merteuil in Le relazioni pericolose, dimostrandosi una spiritosa osservatrice, ha definito la sua faccia “uno stadio dopo la partita”. E in effetti Stephen Frears non si può definire, all’aspetto, un uomo “curato”. […] Assomiglia a un personaggio di Lucian Freud, solo più ironico» (Irene Bignardi). «Ha le mani piene di schiaffi. Mani palmari, gonfie di schiaffi mai dati. Ma a quanti li avrebbe rifilati con gusto… “Quando ho cominciato a fare il regista, ho rivissuto l’incubo dell’insegnante, con attorno gente da rispedire al posto con una pedata. Anche il set è spesso una scuola d’incompetenti o prepotenti, i produttori in prima fila: da prendere a pugni. Ma, a differenza dei professorini in cattedra, i produttori più indisponenti spesso conoscono bene il loro mestiere. Unico caso nella storia dell’umanità in cui i peggiori sono i migliori”. […] Più pacato rispetto al passato, quando lanciava strali contro Tony Blair (“Non sono per la pena di morte, ma nel suo caso farei un’eccezione”) o contro il degrado dello spettacolo cinematografico (“Darei fuoco alla sala dove si proietta un film che non mi dà esaltazione mentale”), Frears oggi restringe i suoi campi di battaglia: “Per tenere a bada la troupe si può andare sul set con una pistola. Con il pubblico, la soluzione è forse meno semplice”. In costante, britannico equilibrio tra ironia e autoironia, il cineasta […] gioca al monello perenne, all’indisciplinato di genio» (Serenellini) • «Prolifico e imprevedibile, eclettico e provocatorio, Stephen Frears sembra sfidare la possibilità stessa di una definizione monolitica del suo cinema. È tra le figure più vibranti e rappresentative del cinema inglese contemporaneo (accanto a Ken Loach e Mike Leigh), ma a differenza di molti non teme di apparire contradditorio, passando con nonchalance dal realismo sociale degli anni ’80 alle biografie, dalle commedie ai drammi storici, alternando film inglesi e americani, produzioni a basso costo e grandi budget, cinema e televisione, ogni volta a proprio agio. È forse questo palese contrasto a costituire l’aspetto più interessante del suo lavoro, insieme con le qualità che tutti gli riconoscono: una sensibilità non comune nel dirigere gli attori, l’abilità nel trarre il meglio dal rapporto con scrittori affermati (Alan Bennett, Christopher Hampton, Hanif Kureishi, Nick Hornby), l’apparente modestia che consiste nel subordinare lo stile alle esigenze del materiale. Grande narratore di storie, dalle quali emergono tematiche ricorrenti come l’attenzione per personaggi di oppressi e marginali, Frears possiede il dono non comune di offrire nei suoi film migliori un ritratto della società britannica aspro, pungente, non convenzionale, capace di risultare allo stesso tempo disturbante e divertente» (Alberto Barbera) • «Nei miei film parlo di donne, gay, pakistani. Sono sempre stato attratto dagli outsider: forse è per questo che sono considerato un sovversivo». «Sorride con un ghigno da Gambadilegno commentando le vicende della sua filmografia perennemente al confine tra “indie” e “mainstream”, tra impegno e divertimento, tra cinema europeo e grande confezione americana. Una filmografia per cui in America hanno coniato per lui l’etichetta dello “hooligan di classe del cinema britannico”, proprio per la sua capacità di mescolare i generi e i livelli e di dissacrare elegantemente le istituzioni. Gli piace, ma lui, dalla sua, ama definirsi “frivolo”, in confronto almeno ai suoi coetanei e compagni del cinema inglese del “realismo sociale” come Ken Loach e Mike Leigh (“che sono molto più seri di me”), quasi a prendere le distanze dalle molte possibili letture politiche e impegnate che si possono applicare al suo cinema. […] Frears, racconta, è cresciuto […] con il cinema vecchio stampo, “il grande cinema della Warner degli anni ’30, con film divertenti che trattavano temi seri, e poi con Hitchcock, che, guarda caso, con la scusa dei brividi e dell’intrattenimento, si occupava di temi fondamentali come la colpa e la redenzione. Be’, anch’io aspiro a essere frivolo e serio allo stesso tempo”» (Bignardi). «Sono un artigiano del cinema – anche Fellini lo diceva di sé –: non sono capace di spiegare quel che faccio. Chiedetemi film, non discorsi» • «Quanto alla scelta di una storia, “non c’è una ragione precisa, è irrazionale come la scelta di una moglie: bisognerebbe chiedere a uno psicanalista”. E perché tanti personaggi femminili? “Forse perché ho avuto una madre e due mogli dal carattere molto forte: la risposta vera è sempre nella psicanalisi”» (Fusco). «Gli interpreti, però, che sono le pietre preziose del suo cinema, escono da una selezione ragionata? “No, anche gli attori, lascio che vengano scelti dalle storie. Prendiamo la Pfeiffer e Malkovich in Relazioni pericolose: entrambi estremamente sexy, non potevano che innamorarsi l’uno dell’altra. Filmarli è stato un gioco da ragazzi. Al contrario di Elia Kazan che forgiava gli attori, io li prendo come sono, già pronti. Pure con Daniel Day-Lewis, oggi super-oscarizzato e superpagato, è avvenuto lo stesso: quando l’ho cercato per My Beautiful Laundrette, era giovane, sconosciuto e poco costoso. Il mio problema è sempre stato un cinema cheap, iper-economico. E lui era lì, l’attore giusto per me, lancia in resta, per cambiare un po’ tutto. Perché la regola prima di una rivoluzione con garanzie di successo è che ci sia qualcuno su cui contare e che si trovi lì in quel momento. Come Anna Magnani quando Rossellini ha girato Roma città aperta. Daniel Day-Lewis è stato la mia Anna Magnani”» (Serenellini). «“Non mi spiego […] come mai Judi Dench […] sia considerata ancora una grandissima attrice e invece voi in Italia vi siate dimenticati di Gina Lollobrigida”. È anche merito suo se Dench è ancora tanto famosa: le ha offerto ruoli straordinari in Lady Henderson presenta, Philomena e […] Vittoria e Abdul. “No, no, è solo merito suo. È un’attrice carismatica. Per me è un onore aver contribuito al suo successo, ma lei e Helen Mirren hanno la grande capacità di farsi amare dal pubblico. La gente si fida di loro perché sono l’incarnazione di una saggezza profonda. Le donne sono migliori di noi uomini, anche sul lavoro. Ho lavorato con tanti grandissimi attori – Dustin Hoffman, John Malkovich –, ma le donne hanno una marcia in più. Dench, Mirren, Michelle Pfeiffer, Meryl Streep hanno la grande capacità di diventare i personaggi che interpretano”» (Lamberti Zanardi) • «Quasi tutti i miei film hanno delle donne come protagoniste. Come faccio a immedesimarmi nel punto di vista femminile? Non saprei rispondere, ma tutte le donne intorno a me pensano che io sia un terribile maiale: altro che #MeToo!» • «La differenza fra il cinema e la televisione è che fare un film per il primo costa un sacco di soldi. La tv è più economica, e forse è una forma di capitalismo un po’ meno nudo» • «Lavoro molto perché, come a Fellini, mi piace stare sul set, con gli attori, con la troupe» • «Sono stato un uomo molto fortunato. Ho avuto una vita interessante, piena di belle cose. Non mi annoio mai. Passo il mio tempo a leggere sceneggiature e a conoscere storie che mi appassionano» • «Ci sono vantaggi nell’invecchiare? “No! Invecchiare è la catastrofe peggiore che ti possa capitare, eccetto essere giovani. Essere giovani è semplicemente spaventoso”» (Manin).