La Stampa, 7 luglio 2023
Ancora cinque anni e i romanzi saranno tradotti dalle macchine
Mi restano cinque anni, mi è stato detto. Cinque anni per continuare a svolgere il mio mestiere, la traduzione letteraria, prima di venire sostituita da una macchina che sarà in grado di tradurre esattamente come me. A dirmelo è stato l’ad di una grande società che fornisce servizi di traduzione usando – e sviluppando – tecnologie di traduzione automatica neurale, durante un convegno al Senato intitolato “L’intelligenza artificiale e il futuro della diversità culturale”. Il panel di cui facevo parte si chiamava “L’impatto professionale sulle persone. Ripensare i lavori creativi”.Sarebbe facile ribattere che sono le parole del solito tecnofilo digiuno di letteratura, ma la questione è più complessa di così. Cinque anni sono un’era geologica nel mondo in rapidissimo sviluppo dell’IA, e se oggi sembra che le macchine non potranno mai dotarsi delle doti squisitamente umane necessarie per tradurre testi letterari – cioè testi ai quali è possibile attribuire diverse interpretazioni, e la cui resa in un’altra lingua, lungi dall’essere una trasposizione parola per parola, consiste nel compromesso fra il contenuto e la lettura critica di chi lo traduce – è anche vero che siamo rimasti tutti stupiti dall’enorme salto di qualità che si è registrato con l’introduzione della traduzione neurale, tecnologia che sta progredendo a una velocità esponenziale.Il pericolo più immediato, tuttavia, è che passi il principio della good enough quality, ovvero della qualità accettabile: tradurre un libro con l’IA sarà più veloce e costerà meno, e se la qualità ne risentirà pazienza, la rana si abitua in fretta all’acqua bollente. Tuttalpiù avremo una divisione del mercato in due fasce, una di massa in cui le traduzioni saranno generate dalle macchine, e una d’élite per chi vorrà traduzioni fatte da umani.Leggendo la documentazione fornitami dal sindacato dei traduttori, Strade, scopro che il nostro viene considerato un mestiere «a medio rischio di scomparsa». Lo si vede soprattutto nel campo delle traduzioni tecniche, dove la sostituzione sta già avvenendo: agli umani, infatti, viene chiesto sempre più spesso di lavorare su testi pre-tradotti, apportando correzioni a un contenuto generato dalla macchina. Più efficiente, più veloce, più economico. Era questo l’argomento dell’ad che mi ha dato cinque anni di tempo. Se ora impieghi un mese per tradurre un testo, con la nuova tecnologia impiegherai un giorno. Pensa che bello, potrai tradurre trenta testi invece di uno. O ancora meglio, potrai lavorare un solo giorno al mese e per il resto fare quello che ti piace. Peccato che la cosa che più mi piace fare sia proprio tradurre, gli ho risposto. Così creerete un’enorme massa di gente depressa. Lo so, questo è un problema che dobbiamo ancora risolvere, mi ha detto lui.Quella stessa sera ho visto una “mia” autrice (noi traduttrici a volte parliamo così, perché dei nostri autori ci innamoriamo) e le ho raccontato tutto. Lei ha risposto come mi aspettavo che rispondesse, e come mi aspetto che risponderanno in massa scrittori e scrittrici (con il sostegno dei lettori e delle case editrici): «farò mettere una clausola sui miei contratti per imporre di essere tradotta solo da umani».Oggi tutti i mestieri creativi sono minacciati da una tecnologia non regolamentata, che setaccia la rete per alimentarsi gratuitamente delle opere delle persone a cui sta togliendo il lavoro (e infatti cominciano a fioccare le querele per violazione del copyright). L’AI Act, una recente proposta di legge europea, dovrebbe vietare, o quanto meno contrattualizzare, l’uso di materiale protetto da copyright nel set di addestramento delle macchine, oltre a imporre di indicare se una qualunque opera d’arte o dell’ingegno sia stata realizzata da un’intelligenza artificiale. Una specie di “bollino”, insomma. Made by Humans.Ma perché io mi rifiuto di ripensare il mio lavoro creativo? Perché, per esempio, preferisco non affidare la prima stesura di una traduzione a una macchina? Potrei rispondere menzionando l’effetto ancoraggio, cioè la distorsione cognitiva che influenza il processo decisionale (e la traduzione è un processo fatto di continue decisioni) ancorandolo alla prima informazione che viene offerta. Se permettessi all’IA di offrirmi la prima versione di una traduzione, dovrei poi calcolare un tale dispendio di tempo e fatica per sbarazzarmi delle aride piattezze introdotte dalla macchina che il gioco non varrebbe la candela.Ma il vero motivo in fondo è un altro: non ho mai dubitato neppure per un istante che l’ad mi abbia detto una panzana. Perché, come diceva la compianta Delfina Vezzoli (in L’arte di esitare – Dodici discorsi sulla traduzione, Marcos y Marcos): «(…) la risposta è nel testo, basta vederla. Basta pensare lo stesso pensiero, sentirne il ritmo, snocciolarne il rosario: la soluzione è lì, devi solo inventarti una lingua “sua” nella tua lingua che respiri con gli stessi polmoni, seguendo le stesse pause di battiti del cuore, ed è fatta. Semplice, no? Si chiama empatia».