Corriere della Sera, 7 luglio 2023
Ultime sul turismo
Naturalmente siamo tutti «open to meraviglia». Nel senso che il boom del turismo ci fa felici, se non fratelli siamo pur sempre figli d’Italia, avere successo nel mondo è comunque una soddisfazione. E poi ci fa ricchi, o almeno fa ricco il vicino che ha comprato l’appartamentino e l’ha messo a reddito come casa-vacanza, o il bar all’angolo che ormai ha la fila al mattino per la colazione col buono, o il negozio che affitta le biciclette a muscolosi olandesi incuranti del solleone. E se non ci fa ricchi ci fa comunque meno poveri, come accade ai plotoni di affannati bengalesi e cingalesi, sottopagati a cottimo per adescare a gran voce i clienti davanti ai fast food, un tanto a turista.
Poi però non ne possiamo nemmeno più. Non se n’erano mai visti tanti. Almeno a Venezia, Firenze, Roma, e sempre più a Napoli e Milano, l’invasione sta assumendo forme patologiche, ormai incompatibili con le normali funzioni urbane delle nostre città. Complice il tradizionale lassismo italiano e una certa anarchia nella gestione delle regole, assistiamo a fenomeni alluvionali di vera e propria tracimazione di folle. Nella Suburra di Roma, nei vicoli di Spaccanapoli, nel quadrilatero della moda a Milano, i marciapiedi non ne contengono letteralmente più il fiume, che così esonda sul manto stradale.
La via, però, è a sua volta già occupata da una folla variopinta di monopattini, e-bike, kart da golf, van hollywoodiani con i vetri oscurati, eleganti vetture di Ncc, più i tradizionali taxi, ormai oggetti vintage del desiderio nel senso che trovarne uno è una lotteria, e perfino le auto private dei residenti, che ancora pretendono di circolare e di tanto in tanto parcheggiare.
Dopo una mattinata in giro (diamo questa notizia: oltre ai turisti nelle città c’è anche gente che lavora, o che non lavora più perché si è fatta anziana ma si ostina a uscire per la spesa), bisogna tenere i nervi molto saldi prima di parlare di «overtourism», come è ormai definito questo fenomeno. Non bisogna cioè cedere alla facile e snobistica tentazione di disprezzare le masse quando non ne facciamo parte, di rifiutare agli altri bellezze, monumenti e atmosfere che ci godiamo ogni giorno, o piaceri che noi stessi avidamente cerchiamo invadendo a nostra volta Parigi o Londra.
Ma qualcosa va fatta. Di questo passo si rischia un infarto urbano. E non siamo che agli inizi: nel 2018, prima del Covid, il numero di turisti in giro per il mondo era di 1,4 miliardi. Sarà di 2 miliardi tra sei anni. Di 3 miliardi nel 2050. Il guaio (per modo di dire) è che anche le esigenze di mobilità dei non turisti aumentano con l’aumentare della rapidità dei trasporti (alta velocità, aerei) e con l’invecchiamento della popolazione (gli over 65 non vanno in monopattino, hanno bisogno di autobus, metrò e taxi). Il che ci fa facilmente prevedere che, tra poco, nelle città non ci staremo più tutti insieme.
La cosa strana è che in coincidenza di questo boom senza precedenti, negli ultimi dieci anni il numero degli alberghi in Italia è perfino un po’ diminuito, il numero delle camere è rimasto fermo a un milione, e quello dei posti-letto in strutture non alberghiere (ma ufficiali) è passato da 2 milioni e mezzo a quasi tre, dunque poca roba. La folla mai vista che di giorno invade le nostre città, dorme dunque di notte nelle case ad affitti brevi, è gestita dalle piattaforme digitali, incolonnata dagli algoritmi verso le soluzioni più centrali e più economiche, ammassata negli stessi spazi dal clickbait dei motori di ricerca, che offrono a tutti «vista sul Colosseo per 50 euro a notte». L’alta concentrazione viene da lì. È stato questo il Grande Cambiamento, che ha lasciato al caso e alle bizzarre leggi della «gig economy» la gestione di immensi flussi turistici. Il numero di unità abitative offerte dalle piattaforme a Roma è di circa 21.400, di cui l’80 per cento nei municipi 1 e 2, cioè in centro. A Firenze sono più di 9.000, a Napoli 8.000. E attenzione: a Gallipoli o a Monopoli sono rispettivamente 1.700 e 1.500, uno sproposito, molte di più che a Rimini o Jesolo, dove le tradizionali strutture turistiche con le loro abituali capienze reggono un turismo più equilibrato, e forse anche più redditizio.
Che fare? Delle due l’una. O decidiamo di lasciarci andare, di accettare l’invasione incontrollata e lasciar perdere il resto, di diventare la nuova Grecia d’Europa, un Paese dove il turismo rappresenta il 15% del Pil anche perché c’è poco altro (in Italia, a seconda della metodologia di stima, si varia dal 6,5% all’11%). Possiamo insomma scegliere di trasformare l’Italia in ciò che vent’anni fa paventavamo diventasse per effetto del declino manifatturiero e tecnologico, cioè in un parco a tema per stranieri. Oppure, se non vogliamo questo, e credo non lo voglia nessuno, nemmeno Daniela Santanché o Flavio Briatore, dobbiamo fare qualcosa.
Fare qualcosa vuol dire adeguare la nostra vita, le nostre strutture civili, le nostre città, ai numeri crescenti di turisti, in modo che portino reddito e benefici al settore senza rendere impossibile la vita degli altri. Per esempio riorganizzare il traffico urbano, con aree pedonali per loro e aree di circolazione automobilistica per i residenti. Potenziare la raccolta dei rifiuti in quartieri in cui ormai vivono stabilmente alcune migliaia di persone in più. Chiedersi di quanti voli aerei abbiamo bisogno d’estate per evitare che i prezzi schizzino di ora in ora o che ti lascino a terra per overbooking. Aumentare il numero dei taxi così da non dover fare file di un’ora all’uscita dalla stazione. In una parola programmare, quello che in Italia non si fa mai; e avere un potere pubblico in grado di farlo, perché è suo dovere proteggere lo spazio e le funzioni pubbliche, e un capitalismo moderno non consiste nel dominio dell’algoritmo e del profitto senza regole.
È il potere pubblico che può mettere in campo gli incentivi e le norme che spingano a diversificare, distribuire, indirizzare le masse di turisti anche verso i «second best», posti e luoghi magnifici che alleggerirebbero le mete tradizionali e meriterebbero più presenze, ma non finiscono mai nelle campagne pubblicitarie della Venere di Botticelli, dietro la quale spiccano solo Venezia, Firenze e Roma (basti pensare che in Italia ci sono 610 musei con una media di appena 2,7 visitatori al giorno, e altri 998 che arrivano a 13,7).
Per fare tutto questo, però, bisognerebbe innanzitutto conoscere il fenomeno. Studiarlo. Misurarlo. Essere in grado di dire che cosa intendiamo quando diciamo «over». Over rispetto a che? Antonio Preiti, che l’ha fatto con gli strumenti della ricerca e ne ha scritto su Linkiesta (gli dobbiamo gran parte dei dati riportati in questo articolo), dice che si può calcolare un 30% di turismo «non osservato», che nel gergo statistico vuol dire «sommerso», nascosto, non conosciuto. Un terzo di presenze in «nero» che andrebbe portato alla luce, in emersione.
Il turismo è una benedizione del cielo, ovviamente. Per almeno cinquecento dei tremila comuni turistici italiani, in particolare quelli montani, è addirittura condizione di vita, nel senso che senza morirebbero. Dunque lo vogliamo. E anche se non lo volessimo, è ormai una realtà, destinata a crescere ancora e tumultuosamente. Dunque ci dobbiamo convivere. Perciò sarebbe meglio pensare al più presto a una strategia, prima di restarne soffocati.