il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2023
Su ”Amaro. Un gusto italiano” di Massimo Montanari
Altro che l’infausta accezione di origine dantesca. Amaro. Un gusto italiano garantisce sin dal titolo il nuovo saggio di Massimo Montanari (Laterza), tra i massimi storici dell’alimentazione. Navigando tra suggestioni letterarie e trattati di botanica, agricoltura e dietetica d’antan, un tour de force che restituisce giustizia a un risvolto poco celebrato del made in Italy.
L’amaro riveste un ruolo cardinale nella tradizione nazionale. Nessun’altra cucina europea può vantare una predilezione tanto accentuata per i sapori arcigni. Zero afflizione, anzi la piacevolezza suprema dell’età adulta, strappata per mezzo di un intricato sistema di “piccole mortificazioni” (Antonio Fogazzaro). God save i bicchierini digestivi, dall’effetto intensamente (s)fiammante. Amaretti, nocini, genziane: ogni Regione, ogni borgo tricolore ha il suo liquido “tonico e corroborante” di riferimento.
La ricerca di Montanari prende le mosse da un libello del giornalista Emmanuel Giraud, L’amer. Cultore del “tema del ricordo culinario”, il francese riannoda à la Proust le reminiscenze di un anno trascorso a Roma per un progetto legato alla leggendaria cena di Trimalcione nel Satyricon. “La mia immersione nella cultura italiana è avvenuta attraverso l’amaro. Laggiù l’amarezza è gioiosa, condivisa, appariscente. Non quella cosa di cui in Francia abbiamo quasi vergogna. In Italia l’amaro arriva in ogni occasione, dal primo caffè del mattino fino all’amaro che si assapora nella quiete notturna”. E ne avverte immantinente la mancanza una volta rientrato in patria.
Un trasporto appassionato da Trieste in giù, complice la nostra predisposizione diuturna ai vegetali e alla coltivazione-addomesticazione di una pletora di piante. Commestibili o rese giocoforza tali. L’imprinting fu delle umili genti, che per sopravvivere impararono a non sprecare alcun dono del prato e del sottobosco, dei fossi e delle zone umide. Radici comprese. Dai radicchi ai carciofi, dalla cicoria all’indivia. La rucola, il sedano, le rape, i broccoli, i finocchi più o meno selvatici. Gli asparagi e i cetrioli, le erbe aromatiche, la variegata famiglia dei cavoli. L’aglio e le cipolle, le olive e quindi l’olio. Le arance e i limoni, con annesso successo autarchico delle bevande agrumate: tipo il chinotto, variante della zuccherosa Coca-Cola, “la sana bibita dissetante di gradevolissimo gusto amaro”. Infine il boom della birra (dall’acre luppolo). Sarà che “le papille gustative predisposte al riconoscimento dell’amaro prevedono centinaia di recettori per distinguere una molteplicità di sapori diversi, mentre poche decine di recettori captano le varietà di dolce”. Il meccanismo non è solo biologico, è soprattutto storico e culturale: una questione di abitudine, valori, Zeitgeist.
In principio c’era stato l’incontro tra la cultura contadina e quella aristocratica, le tavole pompose e supercaloriche delle classi dominanti e quelle rustiche e stentate dei villani. A un certo punto hanno cominciato ad accostarsi e ibridarsi. E molti cuochi di corte venivano dal popolo. Un’asprezza di massa. “Una delle caratteristiche distintive dell’alta cucina – difficilmente riscontrabile altrove – è che fin dal 1300/1400, quando appaiono i primi ricettari, sono frequenti i rimandi alla cultura popolare”, scrive Montanari. “È il ‘retrogusto contadino’ di tante ricette, pur camuffato”. A questo provvedevano accorte “strategie di nobilitazione” e di riposizionamento dalla fame alla dimensione del lusso.
Nella raccolta tardo-medievale di sonetti Saporetto di Simone Prudenzani, nel descrivere un banchetto nobiliare, brilla una cornucopia “di lepri, caprioli, cinghiali, vitella, cappone, maiale, piccione e una torta di uccelletti. Ma pure qui la festa inizia con un’insalatella di erbe selvatiche: raperonzoli, pimpinella, mentuccia, crispigniuoli. I due mondi sono lontani. Le insalate si assomigliano molto”. Queste ultime, sostiene il medico-intellettuale seicentesco Massonio, sono ottime come nutrimento delle plebi e irritamento (nel senso di stimolo) dell’appetito degli stomaci altolocati. Ma anche come farmaco naturale e generale per prevenire e curare qualsiasi malattia. “Erba ch’è amara, stomaco rischiara” recita un antico proverbio. In primis l’assenzio, assicurava l’agronomo bolognese Vincenzo Tanara. Un secolo fa la pubblicità del Fernet-Branca prometteva mirabilie: “Favorisce la digestione, estingue la sete, guarisce le febbri intermittenti, il mal di capo, i mali nervosi, il mal di fegato, lo spleen, le nausee… è vermifugo e anticolerico ed è usato in molti ospedali”. Un “amarissimo che fa benissimo” declamava invece quella del Petrus. Ancora oggi altre note marche vengono vendute in farmacia. Amare l’amaro, un elisir di lunga vita.