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 2023  luglio 07 Venerdì calendario

Paola Turci si racconta

«Sul bisogno di cambiare che c’è in me» dice un verso di Stato di calma apparente , successo del 1993. «In quel testo c’era già quello che sarebbe avvenuto dopo» afferma Paola Turci. E si riferisce all’incidente che le ha distrutto parte del viso («connotati cambiati, quattordici interventi di ricostruzione»), e ai rovesci - felici e infelici - della sua vita. Prima cantautrice a sovvertire quelli che in Italia erano i canoni della donna che canta su un palco, amatissima da critica e pubblico (11 Sanremo - 3 come ospite), Paola Turci è stata capace di tradurre in parole e musica un femminile potente, consapevole, anomalo, libero.


L’album del ‘93 si chiama Ragazze : a quelle ragazze lei ha sempre parlato. E le ha sempre raccontate, a partire dalla più fragile e la più coraggiosa di tutte: sé stessa. Dalla giovinezza totale al dramma dell’incidente, Turci ha cantato la forza che le ha permesso di tornare in vita - letteralmente in vita. Da qualche mese è uscito il singolo Caramella , a cui è seguito Fiore di ghiaccio . In autunno il disco nuovo. Intanto si è sposata, è andata a vivere in campagna. Ha undici cani.

Proviamo qui a ripercorrere la storia musicale e insieme personale del simbolo Paolo Turci. Come si dice nelle partiture musicali “aria da capo”.


Nascita?
«12 settembre 1964. In una clinica a via Tagliamento, di fronte al Piper».


Segno premonitore?
«Sono andata al Piper per la prima volta nel 1991, da cantante, con Loredana Bertè. Per strada, guardando la clinica, ho pensato: è un ritorno».


Paola Turci bambina?
«In famiglia ero la più bruttina. Mia madre mi chiamava Calimero, pulcino. Chiedevo: “mamma, come sono?”. E lei: “normale”».


Lo era davvero?
«Mia madre e mia sorella sono bellissime - mia madre lo è ancora a ottantasei anni. Per strada, camminando con mia sorella sedicenne, la gente si girava».


Lei di fianco?
«Sempre desiderato sparire».


La musica nell’infanzia?
«Mia sorella suonava la chitarra, mentre io fissavo i movimenti delle sue mani, me li imprimevo nella mente. A undici anni mi faccio regalare una chitarra anch’io e in quattro giorni, ripetendo le mosse di mia sorella, imparo i giri armonici».


Quindi?
«Canto in bagno per l’acustica buona. All’epoca erano i bagni i luoghi con l’acustica migliore, ho registrato Bambini chiusa nel bagno di uno studio. Pettinata, truccata, vestita Romeo Gigli, tra lavandino e tazza. Ho le foto».


Cantava di fronte allo specchio?
«Guardavo le mani sulle chitarra, o la bocca. Mai il totale».


La bellezza è stata un ingombro?
«Non mi sono mai sentita bella, né lo era considerata. Mi nascondevo, mi vestivo molto, strati su strati».


Corteggiatori?
«Piacevo solo d’estate. Abbronzata, con gli occhi che diventavano verdi».


Riferendosi al tempo prima dell’incidente lei dice di aver vissuto con “un senso di onnipotenza incredibile”.
«Il pensiero che a me, proprio a me, non poteva succedere niente».


Già da adolescente?
«Per esempio d’estate: ogni sera prendevo la Vespa e andavo nel locale dall’altra parte del promontorio. Arrivavo all’apertura, ballavo fino alle cinque del mattino. E via, di nuovo a casa. Sa quante volte ho rischiato su quella strada?».


Incosciente?
«Correvo, nuotavo, odiavo stendermi al sole. Non riuscivo a stare ferma. Ero scalmanata, e, sì, incosciente».


Un esempio di incoscienza?
«Sedici anni, in Vespa con un’amica di notte, inseguiamo la macchina di un tizio che doveva darle della droga. A un certo punto lui si ferma, scende insieme agli amici. Sono in tre, ci circondano, uno mi toglie gli occhiali dalla testa e io... io così coraggiosa scoppio a piangere. Il tizio ha pietà di me e mi lascia andare».


Pericolo scampato?
«Cento, mille volte. Con la convinzione di uscirne indenne».


Agosto 1993.
«Sicilia, tour. Sono nervosa perché la sera prima lo spettacolo non è andato come avrei voluto, in più si rompe la macchina del tour. Una mia amica siciliana mi presta la sua macchina. Intanto sento l’inquietudine montare. Sul traghetto ricordo di aver chiamato tutta la mia rubrica».


Per dire?
«Niente».


E?
«Quando chiamo mia madre dico solo “mamma”, basta “mamma” perché lei capisca che qualcosa non va. Si raccomanda di dormire, anche oggi mi ripete che devo dormire, ha paura che non dorma abbastanza».


La notte del 15 agosto.
«Ho un vestito corto nero, e i capelli liscissimi, appena fatti. Guido la macchina della mia amica. Aspetto la telefonata di mio padre: guardo e riguardo il telefono, finché non mi accorgo che è spento. Da lì smetto di guardare la strada».


A quel punto?
«La macchina sbanda, io riesco a riportarla in strada, sbatte contro il guardrail, si cappotta due volte. In quegli istanti penso: “sono atletica, basta che accompagno le botte”».


Il dopo?
«Appena la macchina si ferma sento i capelli tranciati di netto. La prima cosa di cui mi accorgo. I miei capelli lunghi non ci sono più».


Altro?
«Le voci della gente. Qualcuno dice: “Paola Turci, è Paola Turci”. Io non riesco a aprire gli occhi. In ospedale sento gli infermieri avvisare i medici: “c’è una ragazza nera”. Mi avevano scambiato per una ragazza nera, credo perché non si vedeva niente. Il viso era aperto, c’era tanto sangue».


Lei cosa dice?
«Toglietemi questo vestito, sono piena di vetri dentro».


Risveglio dall’anestesia?
«Chiedo di non avvisare i miei per non farli preoccupare. In seguito saprò che mia madre quella notte ha sognato di riprendermi per un capello dalla lavatrice. Sogna che io sono dentro la lavatrice, e lei riesce a tirarmi fuori».


Il tempo successivo all’incidente?
«A distanza di un mese riprendo il tour. Dico di stare benissimo, trovo mille giustificazioni ai capelli davanti agli occhi: il vento. “C’è il vento” ripeto. Mi copro in ogni modo, occhiali da sole, trucco. Al ristorante mi metto di profilo, con il lato del viso distrutto dalla parte del muro. Anni a nascondermi, fingendo di stare bene. Fingendo di non avere paura».


Quanta paura invece?
«Di essere vista, giudicata, di non essere all’altezza. Addirittura per strada, se qualcuno, riconoscendomi, mi fissava troppo, io m’innervosivo. Pensavo: sta guardando la cicatrice».


La cicatrice?
«La sentivo: qualcosa di appiccicoso che stringeva. Una maschera sulla faccia che non potevo togliere. Alzare una mano e gettare via».


La prima volta che si è riguardata allo specchio?
«Avevo fatto levare gli specchi da casa. Più avanti, con uno specchio piccolo ho iniziato a guardarmi, non tutta insieme. Dal collo in su, salivo: la bocca, il naso, un pezzo al giorno».


Quanti giorni per vedere il viso intero?
«Non pochi».


A ottobre dello stesso anno fa il video di una canzone ( Io e Maria ), dove si mostra senza timore.
«Non proprio senza timore: capelli davanti alla faccia, occhialoni scuri, trucco pesantissimo. Ripresa di profilo, dalla parte intatta».


Con un’esistenza stravolta, in quel periodo lei deve cantare canzoni scritte in precedenza. Quanta distanza da quei testi?

«Non dalle canzoni che parlavano della voglia di cambiare. Lì continuavo a trovarmi, anzi: sembrava che quei testi raccontassero in anticipo quel che mi sarebbe successo, una specie di preveggenza. Piuttosto sentivo tantissima distanza dalle canzoni allegre. Le cantavo, e mi pentivo».


Esempio?
«Ce ne era una veramente scema, Pedalò : “Ciao bagnino su quel pedalò, come vedi nuotare non so».


Quanti anni per dire la verità?
«Ventiquattro. Ventiquattro anni per sconfessarmi. Per rivelare che non era vero niente: no, non stavo bene, non ero felice. Ho trascorso ventiquattro anni a nascondermi. Come i bulimici che mangiano e giurano di non aver mangiato niente».


Allora scrive Fatti bella per te . È il 2017.
«La mia liberazione. “Qualcosa dentro ti si è rotto e sei più bella”. Ci vuole tempo per capire che la bellezza è lì, nel punto di rottura».


Lei è stata una delle prime cantanti italiane a sconfessare i cliché sul femminile.
«Una donna con la chitarra doveva suonare seduta sullo sgabello».


Motivo?
«Per dare un’immagine più aggraziata, in piedi si potevano assumere atteggiamenti maschili, non rassicuranti».


E lei?
«Rifiuto lo sgabello».


In quegli anni ci sono regole anche per l’abbigliamento?
«Tacchi alti e abito aderente».


Paola Turci?
«Per due anni accetto. Poi dico basta».


Sanremo 1989.
«Canto Bambini andando contro ai discografici che volevano farmi cantare un pezzo d’amore. E gli vado doppiamente contro con l’abbigliamento: top, pantaloni, e scarpe da elfo, tutto Romeo Gigli, benedetto il mio incontro con Romeo Gigli. Infine trucco e capelli fatti da sola. Ecco, mi presento sul palco così. I discografici inorriditi».


Onnipotenza?
«Libertà».


Paola Turci icona che si rivolge a un vasto pubblico, incluso quello Lgbt+.
«La prima volta che ho visto due ragazze baciarsi è stato a un mio concerto. Da bambina non sapevo nemmeno cosa significasse omosessuale, non era un argomento affrontato nella mia famiglia borghese Anni 70».


Nonostante ciò.
«Notavo la differenza di trattamento tra maschi e femmine. Una differenza che ho combattuto nella musica e nella vita».


La differenza nell’infanzia?
«Da piccole io e mia sorella cucinavamo e ci rifacevamo i letti. Mio fratello no, ha imparato molto dopo».


Come conosce Paola Turci l’ambiente Lgbt+?
«Da ragazza, grazie a un amico di Milano. Con lui ho la possibilità di vedere più mondo rispetto a quello visto fin lì. Incontrare persone nuove. Accorgermi delle ingiustizie, desiderare la parità».


In quel periodo chi è Paola Turci?
«Mai definita attraverso la sessualità. Ho avuto molti uomini, eppure nessuno mi ha mai detto con accezione negativa: sei etero».


Al contrario?
«Mi dicevano che sembravo lesbica per via dei muscoli e della voce bassa».


E?
«In quel momento stavo con uomini: fidanzata, sposata».


Perciò?
«La gente continua a dire lesbica come un’offesa».


Cos’è invece?
«Un aggettivo».


Sua moglie.
«Non m’incuriosiva, poi un giorno leggo una sua intervista su Il Fatto Quotidiano , di Francesca Fagnani, e rimango colpita. Quello che dice sui diritti, sulle ingiustizie. Al che la cerco su Instagram dove lei era arrivata da poco per cercare me».


Per cercare lei?
«Così mi ha detto. Mi seguiva come cantante».


Che musica ascolta Francesca Pascale?
«De André, Fossati, e Pelù».


Pelù?
«Le piaceva fisicamente».


Tornando a Instagram.
«Io metto un like a una sua immagine in sostegno di Radio Radicale. Dal like iniziamo a scriverci».


Primo incontro?
«A un mio concerto. Ero emozionata a sapere che nel pubblico ci fosse lei».


Qualcosa che rappresenta voi due insieme?
«Il camper. Ci piace viaggiare in camper. Siamo andate a Amsterdam, e a Parigi».


Il giorno in cui l’avete comprato?
«Francesca individua il modello su internet, lei in questo è brava, ricerca. Quindi andiamo dal rivenditore. Ricordo la strada per tornare a casa: lei davanti col camper, io dietro in macchina».


Il vostro camper, descrizione?
«Non grandissimo: un living con due panche e un tavolo. Chiuso il tavolo, dal soffitto viene giù il letto».


I viaggi?
«Guida Francesca. Ogni tanto ci fermiamo in autogrill, ma non scendiamo. Rimaniamo dentro, andiamo in bagno».


Poi?
«Ripartiamo».


Cos’è la famiglia?
«Dove c’è amore».


Dove c’è amore per Paola Turci oggi?
«Qui».


***


CHI È PAOLA TURCI
LA VITA — Paola Turci è nata a Roma il 12 settembre 1964, ha una sorella e un fratello. I suoi inizi musicali risalgono agli Anni 80, quando cominciò a esibirsi nei locali romani. Notata dal cantautore Mario Castelnuovo si esibisce per la prima volta al Festival di Sanremo nel 1986 nella categoria Nuove proposte.


LA CARRIERA — Torna a Sanremo nel 1987 e nel 1988 e vince in entrambe le edizioni il Premio della Critica. In tutto sarà a Sanremo per 11 volte, 3 come ospite. Nel 1993 (sesta partecipazione a Sanremo) esce l’album Ragazze, il cui brano più famoso è Stato di calma apparente. A settembre 2014 esce la sua autobiografia Mi amerò lo stesso curata da Enrico Rotelli. L’ultima partecipazione a Sanremo è datata 2019. Il 2 luglio dello scorso anno si è sposata con Francesca Pascale, ex compagna di Silvio Berlusconi.