Corriere della Sera, 7 luglio 2023
In morte di Arnaldo Forlani
È stato lo spartiacque tra la Prima e la Seconda Repubblica, che non nacque nel 1994 con la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi ma nel 1992, quando Arnaldo Forlani – bersagliato dai franchi tiratori – decise di ritirarsi dalla corsa al Quirinale. Fu la fine di un’epoca che avrebbe vissuto una lunga agonia, tra inchieste giudiziarie, attentati, governi tecnici, timori di colpi di stato e il disfacimento dei partiti protagonisti della rinascita nazionale dopo il fascismo. Se Forlani fosse diventato presidente della Repubblica la storia d’Italia sarebbe stata diversa, o almeno così sostengono ancora oggi gli epigoni della Democrazia cristiana testimoni del passaggio di consegne.
In realtà proprio il fallimento di quella candidatura al Colle rappresentò emblematicamente il collasso di un sistema senza più collante. Crollato il partito-stato della Dc sarebbero venuti giù anche gli altri. Alleati e avversari. Forlani l’aveva capito per tempo, da quando era caduto il muro di Berlino. Ma al contrario di Francesco Cossiga, che dal Quirinale annunciava con toni millenaristi la fine di un mondo, preferiva le perifrasi, quei concetti dentro i quali annacquava i pensieri e le polemiche. Una volta resistette per un’ora alle domande dei cronisti che gli chiedevano conto delle picconate di Cossiga, finché dal gruppo si levò una voce: «Onore’ ma non ci sta dicendo un c…». E lui serafico: «Se volete, posso andare avanti».
Non si è mai capito se fosse un «coniglio mannaro» o una «tigre che dorme», che erano i suoi soprannomi. Ma una cosa è certa: Forlani, insieme a Ciriaco De Mita, andrebbe studiato dai sedicenti leader contemporanei. Perché, quando i partiti erano forze di masse militanti e non patrimoni personali, quei due giovani rampolli democristiani seppero buttare giù dal piedistallo nientemeno che Amintore Fanfani, di cui peraltro Forlani era stato collaboratore. Il patto di San Ginesio del 1969 non ricorda solo come conquistarono il potere nella Dc: è la testimonianza di come si facesse politica. E «Arnaldo» aveva iniziato a studiare la politica nel 1948. E da Pesaro era arrivato fino a Roma. Fu segretario del partito, presidente del Consiglio, più volte ministro. Poi, a un passo dal Quirinale, cadde. E fu il «tutti giù per terra».
Tenace avversario della stagione di solidarietà nazionale e del dialogo con il Pci, strinse un rapporto stretto con Bettino Craxi e i socialisti, quando anche Scalfaro era con lui su questa linea. Doveva piacergli la parola «preambolo». La usò negli anni Settanta per stringere accordi locali con gli alleati di centrosinistra e poi negli anni Ottanta per stringere intese tra le correnti democristiane e riprendersi piazza del Gesù. Attraversò l’epopea del boom economico e dell’ingresso italiano nel G7, ma – giunto a palazzo Chigi – incespicò sulle liste della P2, che rimasero chiuse nel cassetto per tanto, troppo tempo prima di essere rese note.
Nonostante abbia vissuto svariati periodi di «quaresima», impostigli da Fanfani, è sempre risorto. Al pari di Giulio Andreotti. Con il «divo» e con Craxi furono l’attacco a tre punte dell’ultima stagione prima dell’Armageddon. Anzi, fu proprio la rottura del C.A.F. (acronimo dei tre cognomi) a segnalare i titoli di coda. Ormai le battaglie politiche erano diventate mere lotte di potere, le correnti pompavano solo tessere, circolavano più soldi che idee. La politica costava. E l’America non aveva più bisogno dell’Italia a sorvegliare la cortina di ferro. Fu così che un’intera classe dirigente venne consegnata alla giustizia. Proprio mentre la magistratura era impropriamente diventata potere per responsabilità dello stesso Parlamento che aveva abolito le guarentigie costituzionali. Forlani conobbe la gogna del processo, l’interrogatorio di Antonio Di Pietro, le immagini televisive che lo ritraevano con la bava, la condanna per il caso Enimont per finanziamento illecito, la consegna ai servizi sociali. Fu game over.
Pur non presentandosi alle elezioni del 1994, da rappresentante dell’area moderata assecondò l’iniziativa di Pier Ferdinando Casini di allearsi con Berlusconi. Da allora ha diradato le sue uscite pubbliche e negli ultimi anni ha vissuto al buio, solo di ricordi. Quelli di una vecchia scuola, la Dc, che ha sfornato politici.