La Stampa, 6 luglio 2023
Tra i sopravvisuti di Chasiv Yar
All’ingresso del grande supermarket di Kramatorsk c’è un uomo seduto a terra. Di fronte un cappello liso e dentro qualche decina di grivne d’elemosina. Era lì anche lo scorso inverno e lo scorso autunno. Era lì anche la primavera e l’estate scorsa. Sempre nella stessa posizione: le gambe incrociate, lo sguardo basso, la mano che si tende a ogni passante. Prima delle otto, al mattino, gli anziani aspettano che si alzi la saracinesca, alcuni lo salutano, altri lasciano una moneta.
Gli scaffali del supermercato sono riforniti, le persone che attraversano le corsie sempre meno. Per lo più soldati, sempre meno civili.
Un centinaio di metri più in là i resti del Ria, la pizzeria colpita dai russi il 27 giugno scorso. Di fronte all’ingresso i dipendenti del locale hanno posto una targa coi volti delle vittime, tutte giovani, tutte sorridenti.
Un uomo devia il cammino dalla strada principale e si avvicina, piange come se ne provasse vergogna e allontana le lacrime nel gesto con cui si scacciano le mosche d’estate, poi riprende il cammino fino alla fermata degli autobus dove la vita procede perché non può fare altrimenti.
La guerra muta l’animo umano, lo rende adattabile all’innaturale, alla prossimità con la morte e alla privazione. Nelle città del Donbass è tanto più evidente man mano che si sposta il fronte. Tutti pensano: qui non arriverà. Finché non arriva.
Anche a Chasiv Yar è stato così. Per mesi avamposto della battaglia di Bakhmut, oggi che la cittadina è caduta in mano russa, Chasiv Yar combatte la sua quotidiana sopravvivenza. Delle dodicimila persone che un tempo la abitavano ne restano un migliaio, i bambini sono stati portati via un paio di mesi fa. Ad abitare il vuoto restano gli anziani, così pochi e così ostinati che anche i gruppi di evacuazione stentano ad arrivare. Lidya è la sola persona sulla via che conduce dal palazzo della municipalità al centro di distribuzione di aiuti. Raccoglie i rami, da cui scarta le foglie e ammassa la legna. Lo fa ogni giorno alla stessa ora, poi torna verso casa, accende il fuoco e cucina una zuppa per le sette persone rimaste a vivere nel suo condominio. Le altre sono in coda davanti al serbatoio dell’acqua. In città non ce n’è più e tutte le mattine i tenaci di Chasiv Yar riempiono una o due taniche. Poco importa che intorno si spari, poco importa se i colpi sono sempre più vicini.
Qui non arriverà, finché non arriva.
Secondo Serhiy Cherevaty, portavoce delle forze armate nell’Est del Paese, intorno Chasiv Yar, le truppe di Kyiv sono avanzate tra un paio di chilometri da Sud e da Nord, e avrebbero guadagnato terreno nella zona si Klishchiivka.
Bakhmut è uno degli obiettivi della controffensiva sul fronte orientale e lo dimostra l’ininterrotto dispiegamento di uomini e mezzi. A sollevare il morale delle truppe di stanza in città, sui muri sono stati disegnati i graffiti con l’immagine del generale Valerii Zaluzhnyi, comandante in capo delle forze armate ucraine. Ha le dita in segno di vittoria, ma niente sul campo lascia pensare che lo scopo sia facile da raggiungere, soprattutto se confermata la concentrazione di truppe russe nell’area, sarebbero 180 mila gli uomini spostati sul fronte orientale dalle forze armate di Mosca, cinquantamila nella sola area di Bakhmut.
Fino a due mesi fa il centro di distribuzione degli aiuti alimentari era nel palazzo della municipalità, ora è troppo esposto ed è stato spostato nel rifugio di un condominio. I veicoli dei volontari arrivano solo quando possono, scaricano cibo e anche vestiti, perché in guerra cambiano le stagioni, le magliette devono sostituire i maglioni e le scarpe si consumano, ma quelle che avrebbero dovuto rimpiazzarle sono sotto le macerie.
Nadyia trascorre le sue giornate nel centro di accoglienza, per arrivare ogni giorno attraversa due chilometri di abitazioni distrutte, vetri spezzati, crateri di mortai, resti di vite altrui espulsi dalle mura come le persone che le abitavano. Nadyia non ha bisogno di vestiti, né di cibo. Ha il suo orto e si fa bastare i frutti della terra che lavora. Viene al centro perché ha bisogno di parlare. La guerra le aveva tolto l’istinto di muoversi, persino di pensare, il freddo dell’inverno aveva mutato anche il suo spirito. Trascorreva le giornate seduta in casa, con il figlio diciassettenne a contare i colpi sulla città. Poi un giorno è arrivata l’estate, Nadyia ha passeggiato per prendere l’acqua e ha parlato con gli altri in coda per l’acqua. Ha capito che stava male quando ha detto: non ho più nemmeno paura di morire.
La guerra ha deformato il suo mondo, ha sgombrato Chasiv Yar delle sue geometrie, dei suoi colori. Di quello che ricordava restano le margherite nelle aiuole accanto alla cenere di ciò che, bombardato, brucia.
Liuba parla con Nadyia ogni giorno. La loro è la cronaca di una sopravvivenza, eppure quel ripetere quotidiano la paura le solleva.
Casa sua è stata distrutta due settimane fa, era notte, il tetto della cucina e del bagno è venuto giù. Lei è sopravvissuta e tanto basta a farla sentire fortunata tra i negletti. Ha ripulito quello che poteva, ha preso le poche cose intatte e si è trasferita nel centro di accoglienza.
Quando la preoccupazione la attraversa ricorda che da bambina aveva paura del buio ma ora non più, allora, si è detta che col tempo passerà anche il timore di restare schiacciata dalle macerie, passerà il sussulto a ogni colpo di artiglieria.
Liuba sorride, perché c’è il sole e quando mette la testa fuori ricorda che è necessario resistere. Passa il tempo lì perché, dice, da qualche parte bisogna pur vivere. Da quando ha perso casa la paura ha una forma differente e si esprime per bisogni primari: basterà l’acqua per tutti? domani avrò da mangiare? se resto ferita chi mi porterà via?
Ascolta Nadyia ma per parlare della sua paura si allontana. È la sua forma di bontà, la bontà dei vivi.
Huliaipoli
Scrive Vasily Grossman in Vita e destino che «oltre al bene grande e minaccioso esiste la bontà di tutti i giorni. È la bontà dell’uomo per l’altro uomo, una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie. La bontà illogica, potremmo chiamarla».
È il legame tra chi ha bisogno di aiuto e chi ha bisogno di aiutare. È il patto di tutte le città di confine tra la vita e la morte, è così anche sul fronte meridionale a Hulaipoli, storica città agricola nel Sud dell’Ucraina, oggi prima linea della direttrice della controffensiva che guarda a Melitopol e Berdiansk. Huliaipoli è stata una delle prime città a subire le conseguenze della guerra. Nelle prime settimane dell’invasione, quando le forze russe hanno occupato la parte meridionale dell’Oblast di Zaporizhzhia si sono spinte fin dentro la città prima di essere respinte, e da allora la linea del fronte si è stabilizzata a Sud di Hulaipoli.
Le infrastrutture civili, gli edifici residenziali, le scuole, il centro culturale, le fattorie e da ultimo, due settimane fa, l’ospedale, sono state danneggiate o distrutte dai bombardamenti. In città non c’è acqua corrente da più di un anno.
Delle dodicimila persone che la abitavano ne restano meno di duemila. Ognuno di loro ha un motivo per non andare via.
Svetlana dice che non scappa come gli altri perché quando sei a casa tua anche le mura vuote ti aiutano a guarire.
Ha 38 anni e cinque figli, le due più grandi sono a Dnipro a studiare, i più piccoli di 14, 12 e 6 anni sono rimasti con lei. Ha il sorriso di chi sa contrastare la fatalità, la sicurezza di chi ha fede nel futuro.
Pensa che in guerra ci si adatti a tutto ma crede che sia necessario farlo senza rassegnazione, per questo ha riempito il centro di accoglienza di fiori. Trascorre le sue giornate lì per pettinare le anziane rimaste. Ogni giorno ne arrivano dieci, quindici. Lei le fa sedere, spazzola loro i capelli e le ascolta.
All’inizio della guerra un’esplosione ha colpito la casa adiacente alla sua, erano le 4.30 del mattino, i bambini dormivano, il boato è stato così forte che Svetlana ha avuto la sensazione che il tetto volasse via. In quel momento ricorda di aver detto tra sé e sé soltanto «che qualcuno protegga i miei bambini». Poi l’eco dell’esplosione ha lasciato spazio a un lungo silenzio e lei ha pensato che la preghiera fosse stata ascoltata, e la casa e i suoi bambini preservati dalla morte.
Svetlana non crede in Dio ma sente che sotto il cielo che è diventato minaccia, tutti siano uguali, così quanto la fermezza latita, lei ha imparato a credere negli uomini. Cerca di mantenere calmi i bambini e nei loro occhi non vede paura. La figlia minore ha imparato a distinguere il rumore degli spari. Il medio, dodici anni, le dice che devono restare a Hulaipoli perché la guerra è cattiva e ti raggiunge anche se scappi. Svetlana è d’accordo. «Non dobbiamo andare via dalla nostra terra perché la devono abitare i vivi, non solo i morti».
L’ultima volta che i volontari hanno raggiunto la città per portare aiuti alimentari ai vivi sua figlia ha detto: la prossima volta mi portate la pace?