La Stampa, 6 luglio 2023
Analisi del turpiloquio
Turpiloquio: voce dotta, dal latino tardo turpil?quiu(m), composto di t?rpis ‘turpe’ e -l?quiu(m), da l?qui ‘parlare, esprimersi’, prima attestazione anteriore al 1342. 1. “Modo di parlare turpe, laido, osceno o, più semplicemente, sboccato e volgare”; 2. Nell’ambito del diritto, “reato consistente nell’usare un linguaggio contrario alla pubblica decenza in un luogo pubblico o aperto al pubblico” (Zingarelli 2024).Il dizionario è molto chiaro: parlare in maniera laida, oscena, sboccata e volgare è turpe. Soprattutto, può configurare un reato, quando il tutto avviene pubblicamente: sembrerebbe esattamente ciò che è successo il 21 giugno al MAXXI di Roma, occasione nella quale Vittorio Sgarbi, in dialogo con Morgan, si è lasciato andare a una serie di espressioni per l’appunto volgari, ma anche sessiste, come si evince dal video che è girato in rete successivamente al suo intervento.Che sia ben chiaro: le parolacce esistono, con intensità diverse, in tutte le culture. Quando ero piccola, chiesi a mio padre, linguista, ma, soprattutto, veneto di nascita, come mai nei vocabolari fossero censite anche parole orribili, dispregiative, offensive, ma non le bestemmie. La sua laconica risposta fu che ci sarebbe stato bisogno del doppio delle pagine. Si tratta di una scelta editoriale e culturale precisa: le parolacce sì, le bestemmie no. Ciononostante, non possiamo certo negare la presenza sia delle une sia delle altre, nella nostra lingua come nelle altre.Le parolacce, dunque, sono parte del nostro linguaggio, addirittura del linguaggio umano in senso lato. Sono come delle bombe a mano: disturbano il normale fluire della conversazione, destano scalpore, fastidio o imbarazzo. Creano una cesura. Ciò che è parolaccia non è codificato stabilmente, una volta per tutte: nel corso del tempo, al cambiare del contesto sociale, storico, culturale, un termine può diventare accettabile, da inaccettabile che era, oppure, viceversa, una parola che è stata a lungo usata non viene più ritenuta giustificabile da una specifica comunità. Dunque, ancora ai tempi di Pasolini era normale usare la “n-word” per riferirsi alle persone dalla pelle nera, mentre oggi, il grosso della società la considera un termine da evitare, brutale e razzista. Altra questione, ovviamente, è se una parola così fortemente connotata viene usata da soggetti appartenenti a una determinata comunità: si pensi ai rapper e trapper neri, per l’appunto, che la impiegano tranquillamente per riferirsi a sé. Andando ancora oltre, la parola queer, che in inglese significa “strano/strana”, è andata incontro a un processo di riappropriazione da parte della comunità LGBTQIA+ e oggi è talmente desemantizzata da essere percepita come priva di connotazioni offensive, indipendentemente da chi la usa.Le parolacce sono anche una caratteristica storicamente presente nei linguaggi giovanili, che per definizione si pongono in rottura con il modo di parlare – e quindi di pensare – delle persone adulte. Se si ascoltano i discorsi di un gruppo di quindici-sedicenni, si coglierà un florilegio di esclamazioni piuttosto colorite, quando non, addirittura, imprecazioni. Questi costumi linguistici possono provocare indignazione, ma, qualora ci venisse voglia di iniziare a inveire contro le pessime abitudini linguistiche dei “giovani d’oggi”, occorrerebbe tenere presente che il fenomeno si ripete tale e quale generazione dopo generazione. Certo, quando poi si diventa a propria volta grandi, nella maggior parte dei casi si impara a gestire questa tendenza alla coprolalia. Forse, rideremo meno delle barzellette oscene, o delle battute offensive, o diremo meno bestemmie (che oggi fanno parte del settore della lingua più tabuizzato, almeno in Italia)… o magari no.Qualche anno fa, si è parlato molto di uno sketch del duo comico Pio e Amedeo; i due, nel corso di un programma televisivo, usarono nel loro pezzo la già menzionata parola con la n per riferirsi alle persone nere, e quella che inizia con la r per gli omosessuali. In risposta alle proteste delle comunità tirate in ballo, Pio e Amedeo risposero invocando la libertà di satira e affermando che, nel valutare la gravità delle parole offensive, occorre considerare l’intenzione con cui vengono dette. Siccome loro non avevano intenzione di offendere, le categorie appellate non avrebbero dovuto offendersi (Pio e Amedeo vinsero anche un premio per la satira, quell’anno). Dunque, basta l’intenzione?C’è un bell’articolo di Tullio De Mauro, uscito su Internazionale il 27 settembre 2016, intitolato “Le parole per ferire”, in cui il celebre linguista elenca una serie lunghissima di termini derogatori, alcuni dei quali apparentemente innocui, come “portoghese” o “maiale”, che possono diventare offensivi, per l’appunto parole per ferire, in un determinato contesto. In fondo, anche una parola come tr*ia, usata da Sgarbi in quella famosa occasione, vuol dire prima di tutto “femmina del maiale”, e caz*o è uno dei tanti nomi del membro maschile. Ma allora, come mai tutta questa indignazione rispetto all’uscita del sottosegretario alla Cultura? Al di là delle parole, al di là delle intenzioni comunicative, possiamo identificare un’altra dimensione che assume rilevanza nel discorso sulle parole offensive: il contesto. È molto diverso se una persona, essendosi chiusa un dito nella portiera della sua macchina, se ne esce con esclamazioni più colorite di “perdincibacco!” o “poffarre!”, o se un rappresentante delle istituzioni, in un’occasione pubblica, impiega termini considerati inadatti a quel tipo di situazione.Certo, tra l’anonimo turpiloquente al quale ho appena accennato e Sgarbi esiste un’altra differenza: il primo è una “persona comune”, il secondo, invece, è un personaggio pubblico, tra l’altro noto per la disinibizione con cui usa, non di rado, termini che non avremmo mai sentito che so, in bocca alla Regina Elisabetta, perlomeno non pubblicamente. E quella differenza si chiama “posizione”. Spesso, quando si parla di questioni linguistiche, viene ripetuta una frase che sicuramente, da un certo punto di vista, corrisponde a verità: «Le lingue le fanno i parlanti». Questa affermazione va però circostanziata: le lingue le fanno i parlanti, certo, ma non tutti allo stesso modo. C’è chi può fare più cose con le parole, persino forzare una situazione che richiederebbe un registro diverso, e c’è chi invece, per un’imprecazione usata fuori posto, un’uscita sessista, razzista o abilista, perde il posto di lavoro, o comunque si ritrova addosso una crisi di reputazione. Dunque, esiste una dimensione importante, nel valutare il peso delle parole dette, che è quella del potere. Può accadere che la persona in vista, potente, che forse potrebbe agire per esercitare un’influenza positiva, abusi della propria posizione di predominanza e si permetta di dire cose che, per altri soggetti, potrebbero risultare impossibili da giustificare o scusare. Per me è questo l’aspetto più fastidioso dell’uscita dell’onorevole Sgarbi: mi piacerebbe vivere in un contesto nel quale i personaggi pubblici, ancor più quelli politici, sentissero pienamente la rilevanza e la responsabilità dei loro atti di parola, e preferissero, invece che dare sfogo ai loro istinti verbali, fare da modello positivo per la società tutta. Perché, si sa, il pesce puzza sempre dalla testa.