La Stampa, 6 luglio 2023
Vita di un poliziotto in carcere
«Io sono un poliziotto e mi offendo quando mi chiamano guardia. Per favore, scrivi poliziotto». È racchiuso in queste parole il senso di Salvo per la divisa, quella blu, e non più grigioverde, indossata la prima volta in un carcere di Reggio Calabria. Da lì è partita la sua vita da poliziotto penitenziario. Era il 1995, l’anno del primo concorso dopo la riforma che ha smilitarizzato il corpo. Salvo aveva 20 anni e l’impatto con il carcere fu duro, non per i detenuti ma per i colleghi, che gli davano dell’accamosciato, troppo gentile e dialogante, in fin dei conti un debole. Cresciuto con la cultura della Costituzione, dei diritti e del “trattamento”, Salvo si scontra subito con la cultura della guardia, machismo e forza per governare il carcere. Lo salva il trasferimento a Milano Bollate, che tutti chiamano «isola felice che non fa testo» ma che sempre galera è, solo che lì la Costituzione e la legge si riescono ad applicare e tanto basta a ridurre la recidiva del 10%. Poi la parentesi di Brescia: un salto indietro di 28 anni, all’ariaferma del carcere. E la cronaca, spietata, che racconta storie diverse dalla sua – nelle carceri, nelle questure, persino nelle strade –, non di poliziotti ma di “aguzzini”, gli dicono i ragazzi quando va nelle scuole insieme a detenuti e assistenti sociali a parlare di legalità e devianza. «Mi cade la faccia quando gli studenti ci chiamano così – dice Salvo, mortificato e frustrato -. Hanno ragione. Violenza, sopraffazione, negazione della dignità umana, indifferenza, non sono concepibili né giustificabili. E non possono restare impuniti. Questo clima di odio verso chi è detenuto o arrestato, trattato come un “nemico”, è una pazzia collettiva e va fermato, perché genera reazioni a catena e vanifica tutti i nostri sforzi per cambiare l’immagine e la mentalità del corpo».
Salvo è uno dei 32.281 poliziotti in servizio dentro le patrie galere che al 30 giugno ospitavano 57.536 detenuti, diecimila più della capienza. Anche le divise sono in debito d’ossigeno, il personale invecchia e non viene sostituito: dovrebbero essere 41.865 ma il 31 maggio ce n’erano 37.041, di cui solo 518 direttivi, e con i maggiori vuoti al nord, proprio in Lombardia, perché i poliziotti sono soprattutto del sud e lì cercano di tornare appena possono. Non nel caso di Salvo, nato a Catania ma in servizio a Milano dal 2001.
A Bollate, ma anche in qualche altro istituto, come Rebibbia a Roma, i poliziotti non fanno i “girachiave” né tanto meno le guardie, non si limitano ad aprire e chiudere blindati e cancelli, a custodire e a contenere con la forza; fanno i poliziotti penitenziari, o cercano di farlo, spesso in condizioni proibitive, condividendo con educatori, insegnanti, volontari, direttori il “trattamento”, ovvero il percorso del detenuto verso la libertà.
A novembre 2022, Salvo è diventato viceispettore e lavora in una sezione femminile. In 28 anni il suo stipendio è passato da 1.300 a 1.900 euro al mese. Nel 2017 si è unito civilmente con Davide, palermitano e nutrizionista, e alla cerimonia c’erano tanti colleghi e amici siciliani, pure mamma Lucia, partita da Catania per Milano con i suoi 81 anni ma senza alcun pregiudizio verso quel figlio gay che, anzi, è sempre stato motivo di orgoglio per come onora la divisa e la Costituzione. «Anche in carcere l’omosessualità non è più un problema tra poliziotti e poliziotte – spiega Salvo –. E comunque io mi sono sempre imposto di essere me stesso, senza mai travestirmi per apparire diverso. Noi siamo i primi a dover avere una salda cultura dei diritti, a praticare il rispetto della persona, e dobbiamo impegnarci a trasmetterla. Se siamo credibili, anche i detenuti ci rispettano e imparano la cultura dei diritti».
Ho conosciuto Salvo nel 2008. Dopo 14 anni non è cambiato. E, oggi, tanti “poliziotti” e “poliziotte” (4.982 le donne, di cui 96 comandanti) hanno la stessa cultura. È cambiato, invece, il carcere, sempre più ingovernabile per la perdurante mancanza di politiche coerenti e di personale. È cambiata la società e il carcere ne è lo specchio. «La percezione è quella di una terra di nessuno, senza regole, in cui è sempre più difficile creare una relazione istituzionale con il detenuto», spiega Salvo. La sua, pur breve, esperienza nel carcere Canton Mombello di Brescia è eloquente.
Costruito nei primi del Novecento, dovrebbe ospitare 185 detenuti ma ce ne sono ben 332, di cui 215 definitivi e 173 stranieri. Sono per lo più detenuti comuni ma con gravissimi problemi psichiatrici. 197 i poliziotti, su un organico di 227. Il direttore si divide con altre carceri, 5 gli educatori. È una delle tante, piccole carceri vetuste che sopravvivono al loro degrado. «In alcune stanze ci sono fino a 13 persone, con un unico bagno, piccolissimo, dove c’è solo una turca e, sopra, una specie di doccia – racconta Salvo -. Ci si può sentire persone in un luogo così? Quale idea dello Stato ti fai, se lo Stato ti tratta in questo modo? Ti incattivisci e covi rancore. Inutile girarci attorno: sono “trattamenti inumani e degradanti”, quelli per cui l’Italia è stata condannata dalla Corte dei diritti, eppure non è cambiato nulla. Confesso che ad alcuni detenuti ho detto di chiedere il trasferimento. Lì non si riusciva ad avviare un programma di trattamento, di studio, di lavoro perché non c’era nulla. L’unico sfogo era stazionare nel corridoio e giocare a carte... Che cambiamento è mai possibile? Al ritorno da Brescia ero così sconfortato che ho pensato all’inutilità del nostro lavoro. Ti senti abbandonato. Anche volendo, i colleghi non potevano concepire alcun “trattamento”, la loro priorità era solo la sicurezza perché i detenuti, abbrutiti e arrabbiati, ogni tre per due litigavano e si davano mazzate, scoppiavano risse e sommosse... Una totale ingovernabilità. Capisci che voglio dire?».
In quel periodo, sul lago di Garda si è svolta la festa del corpo di polizia. «Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari venne a visitare il carcere e, come altri prima di lui, non fece che ripetere che andava chiuso per farne un museo. Non è successo nulla. Non c’è volontà e progettualità politica. Del resto, il sottosegretario mica si è spinto a vedere il carcere vero. Si è fermato molto prima e poi se n’è andato. Se entrassero, vedrebbero le condizioni disumane in cui vivono i detenuti, e noi con loro. Ma non vogliono vedere. Si girano dall’altra parte e via».
Quattordici anni fa, con Salvo parlammo anche di pestaggi. Era il periodo del sommerso: tutti sussurravano ma nessuno aveva mai visto o denunciato. Ora il sommerso sta venendo a galla e anche i processi, alcuni per tortura, sono aumentati: Santa Maria Capua Vetere, Ivrea, Siena, solo per citarne alcuni. «Momenti dolorosi – ha detto in Parlamento il Garante dei detenuti Mauro Palma – che non devono gettare un’ombra complessiva sull’operato di chi amministra la sanzione con ordine, sicurezza e rispetto dei diritti di tutti». Il dato positivo, però, è la «crescente insofferenza dei poliziotti più giovani, anche con maggiore cultura, verso atteggiamenti di violenza»; tuttavia, ha aggiunto con le stesse parole di Salvo, «in alcuni settori si è insinuata sempre più una concezione della persona privata della libertà come “nemico” e non come persona che va assicurata alla giustizia e custodita, ma tutelata nei suoi diritti. Una cultura assecondata dal discorso pubblico e dal linguaggio, talvolta anche istituzionale, basato sulla contrapposizione tra “noi” e “loro"».
«È così – dice Salvo – Quando abbiamo saputo di Santa Maria, fra colleghi ne abbiamo parlato a lungo e ci siamo detti che non esistono giustificazioni: lo stress, il senso di abbandono o di impunità... Nulla può giustificare violenza, odio, indifferenza. Che provocano reazioni a catena, pure nei detenuti. Dobbiamo dircelo: questa cultura, che è anche politica, è profondamente radicata. Ma non possiamo lasciarle governare il carcere. Dobbiamo contribuire a sradicarla con la forza della Costituzione. Questo è il vero senso della divisa».