la Repubblica, 6 luglio 2023
Ai Weiwei Il Tao e l’arte della politica
Sulla porta che immette nella mostraMaking Sense di Ai Weiwei, in corso al Design Museum di Londra fino al 30 luglio, c’è una scritta in corpo piccolo: «I caratteri proiettati su queste pareti provengono dalla prima frase del Tao Te Ching, il testo fondativo del taoismo scritto intorno al quarto secolo avanti Cristo: “Il Tao che può essere detto, non è l’eterno Tao”».
In questa frase c’è tutta la saggezza e la provocazione dell’arte dell’autore di questa mostra. La saggezza è quella della tradizione cinese, il suo longevo sguardo lungo, che supera la logica occidentale, fondata su Aristotele ed Hegel al tempo stesso; la provocazione è invece quella linguistica che fa agire questo artista, formatosi in America, in un modo differente dalla propria originaria matrice culturale.
Basta guardare la superficie frantumata blu e bianca che ricopre una parte del pavimento del museo, disposto in ordinata forma rettangolare, dove è raccolto quello che resta di una forma di porcellana: ricorda i fasti del Celeste Impero, ma anche i campi di lavoro degli anni Cinquanta sotto Mao.
Poco più in là la porcellana èquella dei beccucci bianchi di teiere distribuiti dentro un medesimo rettangolo, così da creare una superficie stupefacente di forme simili a lombrichi o altri insetti pietrificati che sembrano saltellare pur nella loro stabile immobilità.
Poi ancora i tappeti di minutissime palline, come quelle di semi di girasoli che Ai Weiwei realizzò alla Tate Modern nel 2010 e che lo fecero scoprire al grande pubblico internazionale, per quanto fosse già un autore molto noto in patria.
E ancora il tappeto di pietre: manufatti di varie dimensioni e colori ben incolonnati secondo la dimensione, come se fossero reperti esposti su una gigantesca pagina di un libro di paleontologia. Per non dire poi dei dragoni o serpenti affissi sulle pareti e composti di zainetti di migranti morti nel loro viaggio verso l’Europa, per lo più annegati nel Mare Nostrum.
Ogni mostra di questo artista possiede insieme qualcosa di poetico e di provocatorio, d’elegante e di scostante. Una dualità che è la radice stessa della sua identità. L’esposizione londinese ci manifesta ancora una volta la sua opera come qualcosa in cui arte e vita sembrano fondersi, e tuttavia restano separate, come parti di un medesimo insieme che non riesce a consistere in qualcosa di unitario. E questo non perché è l’artista a non essere in grado di fondere gli opposti, o i diversi: è la realtà intorno a noi a essere così. Né la logica aristotelica, su cui poggia ancora oggi, nonostante il trascorrere inesorabile dei secoli e millenni, la nostra civiltà, né quella hegeliana della dialettica triadica, riescono a darci ragione della realtà, a porgerla come qualcosa di intimamente unitario. L’idea di un mondo andato in pezzi, ma ricomposto con eleganza dalla mano gentile e meditata di Ai Weiwei, è dominante in questa mostra, in cui si affollano visitatori soprattutto giovani, probabilmente i più sensibili ai messaggi che transitano attraverso la sua opera.
E se si vuole capire chi è Ai Weiwei, basta leggere l’appassionante autobiografia
1000 anni di gioie e dolori(Feltrinelli, traduzione di Katia Bagnoli) che narra la storia della sua famiglia e in particolare quella del padre, il poeta Ai Quin, legato a Mao e mandato a espiare il suo presunto peccato durante la Rivoluzione culturale in un luogo lontano da Pechino, la “Piccola Siberia”, dove gli fu affidato il compito di pulire le latrine (si veda il disegno delle medesime fatto dal figlio che l’accompagnò con il resto della famiglia in quella deportazione forzata).
Questo libro è quanto di meglio oggi si possa leggere per comprendere la Cina dal di dentro. Per quanto strettamente legato all’opera umana e intellettuale dell’autore, ci permette infatti di capire cosa sia questo immenso e decisivo Paese attraverso gli occhi di uno dei suoi figli più significativi.
La Cina oggi conosce sé stessa attraverso Ai Weiwei, ma la Cina contemporanea non vuole conoscere sé stessa, ciò che è stata e ciò che sarà. Vede solo attraverso l’incanto della sua leadership, un fatto che peraltro sembra del tutto identico a ciò che accade altrove con altre classi dirigenti e leader. Come se raggiunto il suo culmine tecnologico la civiltà umana, in occidente come in oriente, fosse guidata da capi sordi e ciechi.
Esplorando la sua stessa creatività come in questo libro, scrivendo online (vedi Blog, Johan&Levi), costruendo opere significative in campi diversi, compresa l’architettura (Ai Weiwei, a cura di H. W. Holzwarth, Taschen), questo artista ci mostra i piedi di argilla su cui poggia il potere dominate del nostro tempo. Lo fa in modo costante, testardo, pungente, ossessivo e leggero, mostrando come si possa fare un’arte politica che non ha bisogno della magnificenza dei patronati e delle potestà di questo secolo, un’arte che gioca sul suo potere di dire e insieme anche sulla sua capacità di produrre senso.
Non è una cosa da poco, vista l’epoca in cui viviamo. Verrà da lì la via della salvezza promessa dal Tao?