il Giornale, 6 luglio 2023
Gli anni Sessanta di Giampiero Mughini
La voce, il talento, quel brio di tutto il suo corpo che ne facevano un’interprete a tutto tondo e non soltanto una cantante, hanno fatto irruzione nella mia vita e come per caso in un pomeriggio dei primi anni Sessanta, quando io avevo poco più di vent’anni. Dico il caso perché nella casa in cui io abitavo con mia madre e con i miei nonni, la televisione non c’era per il motivo semplicissimo che nella casa di borghesia impoverita che era la nostra i soldi di che comprarla non li avevamo. Quel fatale pomeriggio mi trovavo invece in casa di una mia amica con la quale stavamo preparando un esame della Facoltà di Legge cui io mi ero improvvidamente iscritto e finché – dopo quattro anni – non mandai al diavolo quegli studi e mi iscrissi alla Facoltà di Lingue e letterature moderne dove mi sarei laureato nel giugno 1970. In casa della mia amica la televisione invece c’era ed era accesa quel pomeriggio, mentre noi due ci stavamo riposando un attimo dal farfugliare di articoli del codice di cui altissimamente me ne strafottevo. D’un tratto su quello schermo apparve un qualcosa di mostruoso, termine che nella sua dizione proveniente dal latino, indica qualcosa di prodigioso, di eccezionale, di fuori dal comune. Di impareggiabile. Era una ragazzetta credo diciassettenne che io non avevo mai visto e di cui non sapevo nulla. Rita Pavone il suo nome, lei non è che cantasse e bensì mitragliava il suo eventuale ascoltatore con la forza della sua voce limpidissima, con le sue movenze sincopate a perfezione, con la sapienza di una comunicazione che in lei era già perfetta, nemmanco fosse un’artista trentenne. Un prodigio, l’ho detto.
Dopo la volta che lei volle editarmi un libro su Italo Svevo e il caso Trieste di cui nessun editore fino a quel momento ne aveva voluto sapere, sono ancora una volta grato alla vulcanica Elisabetta Sgarbi. Grato di avere lei apprestato questo mio incontro con la Pavone stasera a Cervia, nel quadro delle manifestazioni della Milanesiana, la maifestazione onnivalente di cui lei è da tempo la sovrana indiscussa. Non vedo l’ora di trovarmela di fronte la Pavone, questo prodigio che ha toccato i 77 anni e che li festeggerà riavviandosi in tour lungo lo stivale a balzare addosso al suo pubblico, quel pubblico che nel tempo le ha comprato la bellezza di 50 milioni di dischi.
Beninteso quegli annni Sessanta e attigui Settanta sono stati per la mia generazione anni di scoperte continue, di illuminazioni una dopo l’altra. Dopo che al liceo mi avevano torturato allo spasimo col farmi imparare a memoria i verbi irregolari greci, dopo che mai una volta da un qualche mio professore avevo sentito pronunciare i termini comunismo e fascismo che innervano la storia del Novecento di cui io volevo essere figlio, arrivavano invece dalla società reale dei Sessanta le sollecitazioni di cui valeva la pena nutrirsi, i libri che valeva la pena leggere, i dischi che valeva la pena ascoltare, i fumetti di cui sfogliavamo i racconti con mani tremanti dall’emozione. Per restare in tema di cantanti donne mi ricordo come fosse accaduto ieri la prima volta che ascoltai e rimirai una smagliante Patty Pravo diciottenne nella sala romana del Piper dove mi ci aveva portato un amico siciliano che però abitava a Roma, che potesse esistere una sensualità al contempo talmente elegante e aggressiva fino a quel momento non lo avevo potuto credere. No, assolutamente no.
Nato a Catania, da cui sono andato via nel gennao 1970, ricordo la volta nel 1965 che mi precipitai all’edicola vicino casa mia (dove libri e riviste arrivavano quindici giorni dopo che a Milano e a Roma) a comprare il primo numero di Linus, la rivista di fumetti fondata dal geniale Giovanni Gandini e di cui avevano discusso e progettato a lungo in casa di Guido Crepax dove spesso sedeva a cena Umberto Eco. Ci sono stato molto tempo dopo a casa Crepax, dove mi ha accolto sua moglie Luisa (che purtroppo non c’è più e che ricordo con affetto) e dove lei mi ha mostrato la camera dove Guido stava a disegnare per buona parte della giornata, tanto che ne usciva per un attimo nel primo pomeriggio, vedeva la moglie e le diceva: «Ma dove sei stata tutto il giorno? Non ti ho visto». Superfluo dire che la sua Valentina, il personaggio di una fotografa milanese cui era un tutt’uno vivere e offrire la sua femminilità, è divenuto da subito l’idealtipo femminile della mia generazione, una creatura fantasmatica cui ho dedicato molto e della mia vita reale e della mia vita immaginaria. Da allora collezionare le tavole originali di Crepax è stato un romanzo a sé nel più generale romanzo della mia vita da collezionista delle arti nate nel Novecento. Sono riuscito ad acciuffare la tavola originale della maestosa copertina del 33 giri Nuda dei Garybaldi che passa per essere la più suggestiva copertina di un moderno disco italiano. Alcuni mesi fa ho invece dovuto cedere il passo, quanto all’acquisto di una vertiginosa tavola di Crepax, perché avevo di fronte un piccolo industriale del nord la cui capacità di spesa sarà stata dieci o venti volte la mia, di uno che guadagna il suo pane scribacchiando ora di questo ora di quello. E purche si tratti di cose accadute cinquant’anni fa o più. Mica pretenderete che io mi metta al computer a narrarvi di Elly Schlein o del ministro Daniela Santanchè, per dire di due persone cui auguro ogni bene?