Avvenire, 6 luglio 2023
La più bella vacanza di Pupi Avati
«La più bella vacanza della mia vita è stata probabilmente quell’estate del ‘52. Dopo due anni che mancavamo da Rimini dove eravamo stati tutte le estati, io e la mia famiglia siamo tornati al mare. Anche se la nostra vita era cambiata drasticamente a causa della morte di mio padre». Il grande regista Pupi Avati a 84 anni apre il cassetto dei ricordi per “Avvenire” e dipinge la sua adolescenza a Rimini con il sapore dolceamaro che caratterizza tanti suoi film. Perché una vacanza, dopo un lutto immenso, quando hai 14 anni, può essere una grande lezione di vita, un ritorno alla speranza, ma cambiato per sempre. «Fino ai miei 12 anni vivevo in una condizione economica che si può definire soddisfacente – ricorda Pupi, figlio di un antiquario bolognese –. Con mamma, papà e i fratelli affittavamo ogni anno una villetta a Rimini e portavamo con noi anche la donna di servizio. Fino al 1950 la nostra era una famiglia abbiente. In seguito all’incidente stradale che procurò la morte di mio padre e di mia nonna, proprio a ridosso di Ferragosto, a Santarcangelo di Romagna, la condizione economica di noi tre figli cominciò a precipitare».
L e immagini scorrono, come in “Una gita scolastica” o “Storia di ragazzi e di ragazze”, nella calda estate romagnola dell’Italia ottimista pronta per il boom economico.
Fra bagnini, belle ragazze e lunghe spiagge assolate, il giovanissimo Giuseppe, detto Pupi, si ritrova però di colpo a dover nascondere il dolore e la povertà. «Tornammo al mare in una condizione molto diversa da ciò cui eravamo abituati, con zia Laura che sopperiva in parte, affittando per noi un garage in cui vivevamo, diviso internamente con una tenda, con un cortile e una ritirata esterna – ricorda il regista quasi filmando la scena –. Mia madre, mia zia e la domestica facevano da mangiare e dormivano dentro un garage con noi tre fratelli. Eppure quell’estate per me è stata una estate clamorosa». Dopo il buio profondo, anche quella parvenza di ritorno alla normalità bastava a ridare il sorriso a un ragazzino. «Era come riappropriarsi dalle cose partendo da zero, ricominciare a vivere – aggiunge Avati –. Mia madre non voleva privarci dell’estate al mare, anche se non aveva più i mezzi economici per potersela permettere a certi livelli. Eppure quella fu l’estate che io ricordo come la più gioiosa. Molto spesso le cose, quando impari a non averle, arrivi ad apprezzarle in un modo incredibile». E quando le cose non le hai, te le devi inventare, e a Pupi la fantasia non è mai mancata: «I ragazzi della Bologna bene si distinguevano perché portavano le scarpe bianche e io l’unica cosa che potevo esibire era proprio un paio di scarpe bianche che ero riuscito a farmi regalare. Così raggiungevo gli amici ricchi al passeggio, senza però farmi mai accompagnare a casa. Fu un’estate di menzogne in cui finsi di essere quello che non ero. Non la dimenticherò mai. La mia professione mi ha portato a viaggiare e trascorrere il tempo nei luoghi più esotici. Invece quel garage a Rimini, con il gabinetto esterno, i materassi per terra e le scarpe bianche sono il mio ricordo più indelebile». Dopo essere piombato improvvisamene in una dimensione sconosciuta di povertà, aggiunge Avati – «fingere è stata un’esperienza che mi ha riconciliato con la vita». U na vita fatta di successi, di decine di film, di viaggi che tuttavia possono allontanare dalla semplicità delle cose. «Adesso a 84 anni è difficile tornare ad apprezzare il quasi niente, il pochissimo che ridà un fulgore alla vita e che ti restituisce un entusiasmo a una forma primordiale e ingenua quasi sacrale delle cose». Un discorso che vale ancora di più oggi, dal momento che il tempo del riposo per l’inarrestabile regista, è veramente qualcosa di raro. «Il rimprovero che spesso mi muove mia moglie è che abbiamo viaggiato in tutto il mondo (ci mancano solo la Cina e l’India), senza tuttavia aver mai potuto vivere la dimensione dei turisti – afferma col sorriso –. Siamo stati sempre ospiti in contesti e situazioni legate al mio lavoro, potrei dire come una specie di ostaggi. Ti prendono, ti portano in albergo, ti permetti una visita alle Piramidi, e poi giù con le interviste». Insomma, non avere potuto godere di una vacanza vera nella vita è un rammarico. «L’esperienza di viaggiare col piacere della scoperta, preparandosi culturalmente, leggendo, predisponendo un itinerario, mi è capitato molto raramente. Ho sempre messo il lavoro al primo posto, davanti a tutto. Ma a questo punto della mia vita si fanno un po’ di conti. Ecco, e io credo di avere dato tantissimo alla mia professione, ma di non avere ricevuto quanto mi aspettavo».
F orse è stato il trauma dell’inattesa povertà sperimentato da ragazzino ad averlo portato a non coincedersi mai una vera pausa, temebno l’insicurezza economica? «Ho un senso di colpa, sono autopunitivo, lo ammetto, e lo infliggo anche ai miei cari che sono vittime di questa impostazione un po’ difficile». E nemmeno adesso che il suo “Dante” verrà distribuito in tutto il mondo, e che il Ministero gli ha proposto un tour negli istituti di cultura, dalla Cina al Giappone, dal Sudamerica all’India, Avati pensa a una vacanza: «Sarebbe fantastico, certo, ma non me lo posso permettere... io debbo fare un film. Io per essere vivo, per potermi guardare in faccia la mattina, devo essere perennemente impegnato dal lavoro, è una urgenza connaturata con la mia identità». In realtà Pupi Avati un buen retiro ce l’ha ed è nella campagna di Todi dove, mentre scrive le sue sceneggiature («adesso sto lavorando a un gotico de paura ambientato fra Stati Uniti e Comacchio nel 1946», anticipa) raduna tutta la sua bella famiglia. «I miei nipotini e i miei figli da Londra vengono a stare un mese con noi d’estate, la famiglia in questa campagna di Todi si riunisce anche a Natale» racconta Avati, che sulle vacanze in famiglia dice di essere un papà e un nonno tradizionale. Certo, il nonno di giorno sta chiuso nel suo studio con vista sugli uliveti a scrivere, ma la gioia di avere la sera intorno alla tavola i nipotini che lo abbracciano è impagabile. «Ho cercato da sempre di avere molta cura nel replicare il modello di famiglia che mi è stato trasmesso dai genitori, e che a loro volta avevano ricevuto. Ho cercato di fare come loro, di interpretare la vita con lo stesso atteggiamento e di essere a mia volta un esempio per i miei figli. Un’esperienza che fortunatamente hanno saputo far loro, e che mi auguro possano trasmettere ai loro figli».