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 2023  luglio 06 Giovedì calendario

Intervista a Gianrico Carofiglio

Dove scrive i suoi romanzi Gianrico Carofiglio?
«Ovunque».
Che vuol dire ovunque?
«Nei bar, nei treni, negli aerei, per terra in un giardino. Anche durante incontri pubblici noiosissimi, c’è sempre qualcuno che dice cose inascoltabili».
Quanti libri ha scritto?
«Ventiquattro».
Vendendo quante copie?
«Sette milioni, tradotti in trentuno paesi. L’ultimo la Thailandia».
La passione dello scrivere quando arriva?
«La passione è nata molto presto, il mestiere di scrivere molto dopo».
Presto quanto? Da ragazzino?
«Da ragazzino ero sfigato. Timido, fragile, goffo, sono stato bullizzato fino ai quattordici anni».
Poi cosa è successo?
«Ho cominciato a praticare le arti marziali e il bullismo è cessato, si sono invertiti i ruoli».
Le ha abbandonate le arti marziali?
«No, no, ho sempre “mister sacco” a casa, le metto sempre nei miei libri. Ma non solo».
Che vuol dire?
«Quando serve uso le arti marziali anche nella vita di tutti i giorni. Una volta a Firenze tentarono di rapinare una collega, io facevo ancora il magistrato, i rapinatori erano due».
Come è finita?
«Come dentro un film. Bene per la mia collega».
La passione per scrivere è arrivata molto presto, e il mestiere quando? «Alle soglie dei quarant’anni, ero magistrato. Era arrivato quel momento che arriva a molti, se non a tutti. Ti interroghi sul senso: stai facendo quello che volevi fare davvero nella vita?».
Conosciamo la risposta. Non sappiamo come è cominciata.
«La spinta è venuta quando ho percepito la mia città come un possibile scenario per un romanzo. Fino a quel momento a Bari era stato ambientato solo il romanzo Capatosta di Beppe Lopez, ma era tanto diverso da quello che avevo in mente io».
Quindi è partito.
«Ho scritto il primo libro e ho mandato in giro il manoscritto per le case editrici».
Cosa è successo?
«C’è stato un editore che mi ha risposto dopo un anno e mezzo».
Per dire?
«Che avevano ritenuto il romanzo senza prospettive commerciali. Non si erano accorti che era già stato pubblicato da sei mesi. E che aveva già venduto 800 mila copie, anche se questo non potevano saperlo».
Stiamo parlando di «Testimone inconsapevole», pubblicato da Sellerio. «È stata Elvira Sellerio che ha avuto l’intuito».
Di cosa?
«Di tutto per il libro. È stata lei a chiamarmi per dire che voleva pubblicarlo. Era una mattina di maggio, il 14 maggio 2002. Erano le due e mezza del pomeriggio, non posso dimenticare».
Squilla il telefono e la vita cambia.
«Ho avuto un tuffo al cuore. Volevano pubblicare il mio primo libro, non ci credevo».
Quel libro è diventato un best seller.
«Siamo arrivati all’edizione numero 104, un record assoluto per un autore italiano vivente. Ma fosse stato per il mio titolo...».
Cosa sarebbe successo?
«Volevo chiamarlo: Quello che il bruco chiama la fine del mondo. Ci avevo messo pure i puntini di sospensione».
Elvira Sellerio che ha detto?
«Che con quel titolo non si vendeva neanche una copia».
Lei ha obiettato qualcosa?
«Impossibile con lei. Ci ha pensato un po’ e ha tirato fuori il titolo giusto. È stata sempre lei a volere che il protagonista del libro, l’avvocato Guido Guerrieri, diventasse il protagonista di una serie. Per me Testimone inconsapevole sarebbe rimasto un romanzo isolato».
La fortuna di trovare buoni maestri.
«Io sono sempre stato piuttosto fortunato».
In che cosa?
«In tanti aspetti della mia vita. Ma faccio un piccolo esempio per capire. Dovevo fare gli orali per il concorso in magistratura. C’erano tredici materie e quella per me più ostica era diritto ecclesiastico. Non sapevo niente, era arrivato il momento degli esami. Ho aperto a caso una pagina del libro di testo».
E le hanno chiesto proprio l’argomento di quella pagina...
«Già. E il professore mi disse che alla domanda di quell’argomento non aveva mai risposto nessuno».
C’è stato un momento in cui ha pensato che la fortuna l’aveva abbandonata?
«A Uluru».
Dove?
«Nel bel mezzo del deserto dell’Australia, un po’ di anni fa. Ero andato a fare una gita con un pullman e per una distrazione il pullman è ripartito senza di me. La città più vicina, Alice Springs, era a quattrocentocinquanta chilometri e non c’era campo per il cellulare».
Quindi?
«Panico. Panico vero».
Poi?
«Quando era già diventato buio, sono arrivati due hippie su un fuoristrada».
Ed è ripartita la ruota. Adesso si è fermata su «L’ora del caffè».
«Il libro scritto con mia figlia Giorgia».
A quattro mani?
«Piò o meno. Lo ha scritto quasi tutto Giorgia. Io però sono l’autore dell’ultimo capitolo che è il racconto in forma umoristica su come abbiamo deciso di fare il libro».
E come avete deciso?
«Tutto nasce da un podcast che poi è diventato il libro. Un’idea di mia figlia di mettere a confronto due punti di vista di generazioni diverse per sesso, e per sensibilità sui temi cruciali della modernità».
Cioè lei e Giorgia.
«Esattamente. Quattro mani per sette temi».
Lo scontro più aspro?
«Quello sulla crisi climatica. Ma non direi aspro. Partivamo dalla stessa opinione: è un problema gravissimo che deve essere affrontato con determinazione ai vari livelli della politica».
Dove arriva lo scontro?
«Giorgia mi rimprovera un ottimismo eccessivo nel vedere la soluzione del problema».
Come fa ad essere ottimista?
«Vado indietro nella storia e rifletto su cosa ha fatto l’umanità per crisi che sembravano insuperabili e che sono state invece superate in maniera inattesa».
Un esempio?
«Nel 1990 Nelson Mandela è uscito dal carcere dove era stato prigioniero per ventisette anni ed è diventato presidente del Sud Africa, dove c’era l’aprtheid fino a mezzo minuto prima. Non avremmo mai potuto immaginarlo».