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 2023  luglio 06 Giovedì calendario

Russia, tornano «i selvaggi Novanta»


La propaganda di Stato: basta poco a ripiombare nel disonore

Che fallimento, che instabilità, come si stava male negli anni Novanta. Sul video scorrono i ritratti dei ribelli o traditori della storia russa. Prima Pugaciov, che guidò l’insurrezione dei contadini contro Caterina II, poi il generale Vlasov che collaborò con i nazisti. Per chiudere la colonna infame, appare un breve video con morti ammazzati per strada, Gorbaciov, Eltsin, il palazzo del Parlamento bombardato, la bandiera dell’Urss ammainata per sempre. Dmitry Kiseliov, il decano dei propagandisti, assume una espressione severa e indica quelle immagini. «Bisogna stare attenti, perché ci vuole poco a ripiombare in un’epoca recente fatta di dolore e disonore».
Ovunque ti giri, su qualunque canale o giornale si posino gli occhi, appare il severo monito. Fate i bravi, altrimenti tornano «i selvaggi Novanta», vengono chiamati proprio così, «likhiye devyanostyye», una espressione diventata ormai frase fatta. Anche l’insurrezione di Evgenij Prigozhin viene definita su uno dei quotidiani più vicini al Cremlino come un prodotto «dell’ideologia malata e individualista» di quel periodo che va dal 1991 al 1999 e la cui diversa interpretazione rimane forse lo spartiacque più evidente dell’incomunicabilità tra Occidente e Russia.
Per noi, il quasi decennio che separa la fine dell’Urss dall’arrivo al potere di Vladimir Putin fu in definitiva un’epoca di opportunità, in cui per la prima volta nella sua storia la Russia sperimentò qualcosa di simile alla democrazia. Per loro, fu un disastro.
«I peggiori anni della nostra vita» li definì proprio Putin in un suo discorso del 2015. A navigare sul sito del Cremlino, nella sezione che raccoglie ogni dichiarazione pubblica del presidente russo, c’è l’imbarazzo della scelta. L’idea che sia stato lui a tirare fuori il Paese da quell’era è ancora oggi il messaggio politico più importante di ogni sua campagna elettorale. E lo sarà anche di quella che comincerà tra pochi mesi.
La marcia su Mosca della Brigata Wagner non ha fatto altro che azionare la leva che agisce sulle paure dei russi, che temono più l’anarchia di qualunque altra cosa. «Siamo in guerra con l’Anti-Russia in Ucraina. Ma l’Anti-Russia è la Russia stessa negli anni Novanta, è quando abbiamo abbandonato la nostra identità, il nostro modo di pensare». Come dimostra l’ultimo messaggio scritto da Aleksandr Dugin, filosofo di riferimento dell’ultranazionalismo, quel periodo viene oggi considerato anche come il principale terreno di scontro tra due diverse visioni del Paese. Almeno in questo, c’è del vero.
Contrasti
Visto da Occidente quel decennio fu invece la fase in cui Mosca fu più vicina alla democrazia
L’economista Egor Gajdar, padre delle riforme economiche che aprirono la strada a una forma selvaggia di privatizzazione, teorizzava la necessità di approdare in fretta a una repubblica di tipo «occidentale». Poco importa che Putin sia figlio anche di quel processo di disgregazione, e che nei suoi primi anni al potere perseguì una politica di avvicinamento all’Europa.
Conta solo il presente. Contano la direzione «asiatica» intrapresa dalla Russia e l’inquietudine generata dal blitz di Prigozhin. Così come vengono presentati nei documentari che quasi ogni sera li rievocano, i selvaggi Novanta sono anche un monito a futura memoria contro la corruzione dell’anima russa da parte dell’Occidente.
«Era molto comune vedere zingari che mendicavano dicendo “siamo rifugiati” come fanno oggi i profughi ucraini» si legge in un editoriale pubblicato da Tsargrad, sito e galassia mediatica dove convergono estremismi politici e religiosi. «Alla fine, l’Europa sta diventando come la Russia degli anni Novanta».
Ma esiste un evidente rovescio della medaglia, in questo revival ben indirizzato. Il passato e il presente cominciano a somigliarsi. Anche allora era in corso una guerra, in Cecenia. Anche allora i cimiteri si riempivano di soldati seppelliti in fretta. «Oggi è peggio» scrive un editorialista sotto pseudonimo sul più importante sito d’informazione di Rostov-sul-Don. «Perché non crediamo più che domani potrà essere meglio. Forse per la sensazione di essere diventati un paria. Oppure perché rispetto a quel periodo c’è sempre meno mercato, e sempre meno democrazia».
Andrej Polosin, professore dell’Università di Mosca, stretto collaboratore del responsabile per la politica interna del Cremlino Sergey Kirienko, non può essere certo considerato un dissidente. Eppure, in un discorso pubblico dello scorso febbraio ha trovato una analogia tra la Russia di ieri e quella attuale, che invece ora vengono presentate come l’alfa e l’omega, due mondi all’opposto. «In questo momento non stiamo vincendo, e siccome rischiamo anche di abbandonare la nostra missione spirituale, la vita della gente peggiora» ha detto. «Proprio come avvenne nei selvaggi anni Novanta».