Corriere della Sera, 6 luglio 2023
Intervista a Giampaolo Rossi
Al settimo piano di viale Mazzini, il giorno dopo lo «scippo» di Bianca Berlinguer messo a segno da Mediaset, proprio alla vigilia della presentazione dei nuovi palinsesti Rai, si respira tranquillità.
«Siamo qui da 50 giorni: abbiamo evitato uno sciopero generale dei dipendenti, indetto contro la precedente gestione, chiuso il contratto di servizio che giaceva da nove mesi e definito i palinsesti autunnali a tempo di record».
Giampaolo Rossi, 57 anni, romano, direttore generale della Rai, su Berlinguer è pragmatico: «È il mercato che è in movimento».
Non a favore della Rai: è il terzo addio dopo Fazio.
«Fazio è uscito prima che arrivassimo. Quanto alla Annunziata, ancora oggi le sue motivazioni mi risultano poco comprensibili».
E Berlinguer?
«Ha operato una scelta di vita. Dispiace che l’abbia fatta a pochi giorni dalla presentazione dei palinsesti in cui era stata confermata».
Scherzando si dice che chiedesse una trasmissione «a reti unificate».
(Sorride).
Chi prenderà ora il posto di Berlinguer?
«Si deciderà con calma».
Il tetto di 240 mila euro agli stipendi è un vincolo?
«È un elemento che ci sfavorisce in un mercato competitivo. Il rischio è che la Rai diventi un incubatore in conto terzi di professionalità».
I nuovi palinsesti che avete dovuto preparare in tutta fretta in che modo rappresentano la nuova Rai?
«Valorizzano le risorse interne, sono plurali e organizzano finalmente le reti secondo criteri di genere, uscendo da una visione ideologica».
Avete destrutturato Rai3-TeleKabul?
«Rai3, come ogni rete, racconterà l’Italia com’è realmente, non come qualcuno la vorrebbe».
Qualcuno chi?
«Spesso la Rai è stata fuori sincrono rispetto alla realtà: è stata l’espressione di un gruppo ristretto che la dominava».
Il contratto di servizio Rai è il veicolo di nuovi principi? Tra gli obiettivi ora c’è la promozione della natalità.
«Cosa c’è di sbagliato nel promuovere la natalità attraverso il servizio pubblico? Il New York Times ha dedicato una copertina all’Italia che invecchia, parlando di “Tsunami d’argento”. È un tema fondamentale come la parità di genere. Che pure il servizio pubblico promuove».
Però è stato tolto il giornalismo d’inchiesta dagli obiettivi?
«È inserito nell’allegato, parte integrante del contratto di servizio, secondo l’atto d’indirizzo del governo e le linee guida dell’AgCom, dove si parla di qualità dell’informazione. Guardi, questa è solo una polemica inutile: in questi palinsesti l’offerta d’inchiesta giornalistica aumenterà con nuovi format e più ore».
Lei propone gli Stati Generali per riformare la Rai. Cosa vorrebbe cambiare?
«Primo: la natura giuridica della Rai, sottoposta oggi alla rigida disciplina pubblicistica che pone enormi vincoli, rendendola meno competitiva in un mercato sempre più sfidante».
Vincoli? Per esempio?
«Abbiamo procedure di appalto lentissime, poco concorrenziali. Ma c’è un altro punto importante: la durata della governance. Tre anni sono pochi per gestire un’azienda così complessa».
E avere un presidente, un amministratore delegato e un direttore generale non è una cosa complessa?
«Non nel nostro caso: abbiamo competenze diverse e ci completiamo».
E i rapporti?
«Sono eccellenti».
Appartiene al capitolo semplificazione delle cose complesse anche l’azzeramento di tutti i vicedirettori che non si era mai praticato prima?
«È un segnale voluto dall’ad con l’obiettivo di ridisegnare l’organigramma sulla base del merito e di funzioni specifiche che i vicedirettori devono avere».
Il merito ha guidato anche le vostre scelte nelle direzioni? L’opposizione ha gridato all’epurazione.
«Sono state valorizzate le professionalità in una logica di turnazione che ha tenuto conto di un riequilibrio del pluralismo, come non si era mai visto prima».
La Rai ha 580 milioni di debiti e rischia di perdere il canone. Come farete?
«Sta per nascere un tavolo ministeriale sul futuro del finanziamento della Rai».
Intanto nel 2024 che succederà?
«Ci sono ragionevoli certezze che il canone possa rimanere in bolletta. Dopodiché non è un dogma. In molti Paesi non c’è. Ma è un dogma che il servizio pubblico venga finanziato dallo Stato».
E chi lo dice?
«Il regolamento europeo che pone il finanziamento del servizio pubblico come strumento di garanzia delle moderne democrazie».
La Lega vorrebbe far rientrare il finanziamento nella fiscalità generale.
«A noi interessano risorse certe e stabili. I modi li decida la politica. Intanto andrebbe recuperata alla Rai quella parte del gettito che oggi finisce altrove. Sono 150-180 milioni che potremmo vincolare a usi predefiniti: la produzione audiovisiva italiana, l’ammodernamento delle sedi regionali e la digitalizzazione».
Il canone è la tassa più odiata dagli italiani. Dipende dalla percezione che la Rai è un costoso carrozzone con 12 mila dipendenti?
«Ma non lo è. Vorrei ribaltare questa narrazione».
Prego.
«Tra i cinque più grandi servizi pubblici europei è quella con meno dipendenti, con il canone più basso e con il miglior rapporto tra finanziamento e ascolti».
Niente piani «lacrime e sangue»?
«Assolutamente no».