il Giornale, 5 luglio 2023
I conti del viaggio in Italia di Goethe
«Ho pressoché sorvolato le montagne tirolesi; ho visitato bene Verona, Vicenza, Padova e Venezia, di sfuggita Ferrara, Cento e Bologna. Firenze si può dire non l’ho veduta. L’ansia di giungere a Roma era così grande, aumentava tanto di momento in momento, che non avevo tregua, e sostai a Firenze solo tre ore. Eccomi qui adesso tranquillo e, a quanto pare, placato per tutta la vita. Giacché si può dire davvero che abbia inizio una nuova vita». Goethe era letteralmente fuggito in Italia, scappando alle tre di notte del tre settembre del 1786, prendendo il mezzo più veloce (e più caro) dell’epoca, la Extrapost. Perché tanta fretta? Per evitare di farsi riacciuffare dagli uomini del Duca di Weimar, e non perché fosse in rotta col sovrano, anzi proprio il contrario: era insostituibile, in 11 anni di servizio era diventato il factotum del Duca, che gli aveva delegato gran parte dell’amministrazione, dallo stato delle strade alle miniere, dalle uniformi militari del piccolo stato all’organizzazione dei divertimenti di corte. Come l’avrebbe presa Carl August? La prese bene quando seppe, ma solo a novembre, che il suo Goethe era «tranquillo» e «placato» a Roma. E poi c’era anche la delusione per il grande amore della vita: Charlotte von Stein, che però era sposata con prole. Lui gli aveva proposto ancora dieci giorni prima, il 23 agosto, di abbandonare tutto e tutti: «Così tutto finirà dolcemente e i frutti maturi cadranno. Dopo di che, potrò vivere nel mondo con te, in una felice solitudine, senza nome e grado, più vicini alla terra da cui siamo venuti». Così si scrive quando si ama. Ma lei non accettò. E lui fuggì. Non badando a spese, ma annotandole tutte in un «libro dei conti», che ora viene riprodotto in originale, trascritto, interpretato e commentato da Paolo Boccafoglio: Il «Libro dei conti» di Goethe durante il viaggio in Italia (edizioni Il Sommolago del Comune di Malcesine, grande la provincia italiana!). Il «libro dei conti» va dal 3 settembre alla vigilia della partenza da Roma per Napoli nel febbraio 1787. È un testo avventuroso con una miriade di monete: fiorini, talleri vari, Kreuzer, Groschen, livres francesi, lire venete, scudi, paoli e baiocchi. Il curatore italiano è molto preciso, ma ciò nonostante ci si perde con entusiasmo tra le varie valute e l’equiparazione con il valore attuale. Ma ancora più intriganti sono i mezzi di trasporto, a cominciare dalla veloce Postchaise della Extrapost. Più volte Goethe lascia la carrozza per spostarsi in barca, sul Garda, sul Brenta, da Venezia per raggiungere Chioggia, e poi tramite canali e fiumi Ferrara sempre da Venezia. Inoltre viaggia in sediola, una specie di carrozzella a due ruote, ma anche sul mulo o a piedi: per esempio da Foligno ad Assisi. Inoltre sono segnati i costi dei pernottamenti in alberghi di lusso come a Venezia al «Regina d’Inghilterra», ma anche in stamberghe. Ma Goethe non si scoraggia. Gli capita talvolta di pernottare in spelonche pagando solo il letto e usando come toilette il prato davanti all’osteria. Goethe seguiva le indicazioni delle guide, tra cui il celebre Volkmann, che accompagnava ogni viaggiatore. Il «libro dei conti» registra anche gli acquisti di libri – tra cui le opere di Vitruvio e del Palladio – nonché spese per intrattenimenti teatrali – specie a Venezia -, per i cibi (molto amati i fichi e l’uva di stagione), l’abbigliamento. Era partito con gli stivali, ma in Italia a settembre è ancora estate e Goethe si munisce di scarpe, calze di lino e di seta. E poi di bauli di varie grandezze dove riporre le numerose pietre che raccoglie durante il viaggio. Spedisce a Charlotte caffè e cioccolata e per lei scrive un diario di viaggio per farsi perdonare la fuga, ma anche per avere una traccia scritta che utilizzò – dopo trent’anni! – per scrivere il suo Viaggio in Italia. Inoltre deve pagare i vetturini, dare generose mance a camerieri, parrucchieri, lavandaie, servitori di piazza (una sorta di ciceroni e camerieri personali), come pure prevedere spese speciali per ungere le ruote. E poi c’è la misteriosa indicazione di donne. Il precursore di questi intriganti studi su fatture e libri dei conti, Roberto Zapperi, suggerisce che questa voce possa alludere a intrattenimenti intimi, che soprattutto a Venezia erano a portata di ogni borsa. La questione resta aperta. A Roma cambierà tutto con la bella Faustina: «Spesso io ho già poetato tra le sue braccia, il ritmo dell’esametro con la punta delle dita/ a lei sulle spalle leggermente scandendo. Ella respira nell’amoroso sonno e il suo alito mi penetra e mi brucia nel più profondo del petto./ Amore intanto ravviva la fiamma...». E addio Frau von Stein: malgrado il dono del diario, il grande amore era finito. Per tutto il viaggio, soprattutto fino a Napoli, Goethe è in incognito. A Santa Maria del Popolo a Roma va dal parroco, che svolgeva le funzioni di impiegato comunale, e viene registrato nel «Libro delle anime» come Filippo Miller, tedesco, di 32 anni (in realtà ne aveva 37). Abita al Corso (attualmente c’è l’unico museo tedesco all’estero: Casa di Goethe, via del Corso, 18) con tre pittori, tra cui Tischbein, che gli fece il famoso ritratto, con il mantello bianco, appoggiato a un sarcofago sullo sfondo della Campagna Romana. Intanto Goethe si è abituato all’Italia, ama la lingua (il «Libro dei conti» è redatto in italiano!) e la gente. Sono quasi due anni di studi, di scrittura, di libertà sperimentata per la prima volta, di quella che lui chiama la sua «rinascita». Aveva compreso che lui era – lo scrisse al Duca – un artista. Non poteva seguire tutta l’amministrazione dello staterello. A Roma divenne ciò che veramente era. E ora con il «libro» possiamo calcolare quanto gli costò questa esperienza, resa possibile per la liberalità del Duca che continuava a versagli gli emolumenti. Il sovrano comprese che, se lo rivoleva a Weimar, doveva essere generoso. Goethe continuò, da bravo tedesco, per tutta la vita a tenere in ordine i conti. In archivio vi sono circa 25mila pagine tra documenti vari relativi alle spese. Aveva imparato dal padre che pure era un attento amministratore e che redigeva i suoi libri dei conti ancora in latino. Goethe non era certo uno sprovveduto: da giovane aveva frequentato gli ambienti finanziari di Francoforte e a Weimar per anni aveva seguito le finanze del Ducato. Certo in Italia fu prodigo, aiutò i giovani pittori, suoi coinquilini. Liberale fu anche con Faustina, nonché lesinò con le visite ai musei, gallerie, ville private, escursioni a scopo artistico o scientifico. Il ritorno fu doloroso, ma inevitabile. E a Weimar, pochi giorni dopo il rientro, incontrò una giovane di modesta condizione, Christiane, con la quale rivisse, stabilmente e a lungo in segreto, l’indimenticabile esperienza romana. Eppure quasi ottantenne, il 9 ottobre 1828, confessava che dopo il soggiorno romano «non ho più goduto veramente di una simile felicità».