Corriere della Sera, 5 luglio 2023
Che noia il concerto di Bob Dylan
asciate alla porta preoccupazioni, ansie, attese. C’è Bob Dylan dal vivo. Anzitutto bisogna entrare al suo show senza cellulare. «I nostri occhi si aprono un po’ di più e i nostri sensi sono leggermente più acuti quando perdiamo la stampella tecnologica a cui siamo abituati», si leggeva nelle avvertenze prima di acquistare il biglietto. Nei mesi scorsi ci sono stati eventi teatrali con il divieto del telefonino (un incontro con Tarantino a Brescia e il monologo di Bono a Napoli) ma quello di lunedì agli Arcimboldi è il primo concerto.
Come funziona? All’ingresso bisogna inserire lo smartphone in una custodia che viene sigillata con un sistema magnetico tipo quello degli anti-taccheggio nei centri commerciali. Ecco perché vanno dimenticate ansie familiari, sentimentali o lavorative. Se proprio ci dovesse essere un’emergenza si può uscire dalla sala e chiedere agli addetti di sbloccare la custodia, verificare e poi ribloccare. All’uscita stessa procedura, si consegna la custodia e si riprende il telefono.
Per un’ora e tre quarti si è tagliati fuori dal resto mondo. La concentrazione è totale. Non ci si distrae scrollando i social o per la vibrazione di un whatsapp. E nemmeno con la luminosità degli schermi degli altri, in effetti una scocciatura, intenti a fare selfie e video. Focus totale sulla musica e sulla performance quindi. E non c’è protezione nemmeno dalla noia.
È uno sforzo quello che viene richiesto dal cantautore: bisogna andare verso di lui, accettare le sue condizioni, adeguarsi alla sua visione. Tanto di cappello in un panorama di artisti – non solo quelli della nuova generazione – che sembrano schiavi del pubblico, incapaci di scegliere una direzione senza pensare a compiacere i fan. Lui passi avanti non ne fa. Li devi fare tutti tu. E non sempre è facile. Dylan è sempre stato così. Da quando ha iniziato a storpiare i suoi pezzi più famosi per evitare i cori.
In questo «Rough and Rowdy Ways Tour» non si corre il pericolo. I classici non ci sono. Nemmeno uno. Nessuna illusione sul recupero del repertorio quando, presto in scaletta, arriva «Most Likely You Go Your Way and I’ll Go Mine» da «Blonde on Blonde». Il programma si concentra per metà sul disco che ha battezzato il tour, un album dominato dal blues, e per il resto sulla coerenza sonora. Una band solida affianca il Nobel 82enne: lui sempre in penombra, impossibile distinguere lineamenti ed espressioni, anche perché sta dietro al pianoforte posizionato per mettere più distanza possibile dal pubblico. Luci fisse e un drappo rosso a fare da quinta. «I Contain Multitudes» è una cavalcata in cui il recitato prende il sopravvento. La voce è monocorde, rifugge la melodia. Spesso suona e canta alzandosi in piedi. «Black Rider» è dark.
Si coglie una gran voglia di ricerca del dettaglio negli arrangiamenti, nonostante il pessimo suono cui ci hanno abituato gli Arcimboldi, ma anche il desiderio del pubblico di cambiare dinamica e uscire dalla sequenza di ballad. Non appena la band accelera, come in «Gotta Serve Somebody» o «Not Fade Away», la platea si scalda. Una liberazione dalla monotonia. Unica concessione del Dylan iconografico, l’armonica sul finale con «Every Grain of Sand». Uno show per chi cerca un Dylan ancora una volta diverso, ma sempre ostico.