Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  luglio 05 Mercoledì calendario

La guerra di De Luca contro Elly Schlein

Capita, nella commedia dell’arte: se non si è il grande Eduardo, la maschera prevale sull’attore, e quasi se lo mangia. Sicché, provateci voi a interpretare per trent’anni il personaggio di «Vicienzo» capopopolo beffardo, scurrile e amatissimo dai suoi, restando al contempo quel giovane professorino di filosofia che nei primi anni Settanta andava nelle campagne di Persano a guidare le rivolte contadine sotto le manganellate della Celere. A furia di insolentire, digrignare i denti, dare del «pipì» ai giornalisti scomodi e fulminare con un «porti seccia» (sfiga) gli avversari politici, Vincenzo De Luca è diventato il caratterista di sé stesso. In un copione che nelle ultime pagine prevede la sua Nemesi, impersonata da ciò che di più distante da lui sia mai comparso in politica, Elly Schlein.
All’indigesta segretaria bolognese-svizzera-americana, che gli ha commissariato il partito campano con un bergamasco espansivo come un ceppo di arenaria (l’ottimo Antonio Misiani), ha dunque dedicato l’ultima insolenza del catalogo, «cacicca ante litteram», e l’ultima stilettata, «Pasolini non aveva consapevolezza dell’armocromia, un’ora con l’armocromista sono due terzi di pensione minima»: anche se, come osserva Enzo D’Errico sul Corriere del Mezzogiorno, col nostro eroe è meglio star cauti e parlare sempre di «penultima sortita», perché magari l’ultima la sta sparando proprio ora, mentre voi leggete queste righe.
Di sicuro, il governatore della Campania s’è molto immedesimato nella parte. Ed è stato molto creduto. «Vicienzo c’è pate a nnuie»: Vincenzo è nostro padre, recitano, parafrasando Scarpetta, i cartelli issati dai popolani dei rioni scesi fin sotto Palazzo di Città, la sera della sua terza, prodigiosa, rielezione a sindaco di Salerno nel 2006, da cane sciolto e contro il centrosinistra. Lui s’è conquistato quella folla dolente bonificandole i vicoli del centro prima impraticabili, alla guida dei vigili urbani, stando stavolta dall’altra parte del manganello, contro spacciatori, extracomunitari e in generale «racailles», per dirla con Sarkozy. Diventa «Vicienzo ‘O Sceriffo» e il copione comincia così. Prevede lunghe paternali dal pulpito di Lira Tv (con filmati-gogna per chi lascia la «munnezza» fuori posto), un partito-famiglia da proiettare nel futuro (il secondo sgarro di Elly è avergli rimosso il figlio Piero da vicecapogruppo alla Camera), una certa megalomania (col sogno, poi girato in facezia, d’un proprio mausoleo in piazza Libertà, nel cuore di Salerno), la contumelia come manganello nella politica maggiore.
Così, Rosy Bindi, che da presidente dell’Antimafia lo mette tra gli «impresentabili» per un abuso d’ufficio da cui uscirà assolto, diventa «impresentabile lei, in tutti i sensi», «da uccidere», salvo poi derubricare la sortita in «atto di delinquenza giornalistica» minacciando querele. Il trio pentastellato, Di Battista, Di Maio e Fico, viene marchiato con un «tre mezze pippe, miracolati» («ma anche nel Pd ho trovato pippe e fior di farabutti», specifica il nostro, a seguire). Di Maio è bersaglio facile: De Luca gli dà del «Charlie Brown», ricordando che nella sua Pomigliano ha preso 60 voti, «doveva fare il carpentiere, poi s’è perso per strada e ce lo ritroviamo vicepresidente della Camera». Quando quello esce dai Cinque Stelle e diventa un possibile alleato, scatta però la riabilitazione e ora, da inviato nel Golfo Persico, il buon Gigino è «un italiano cui viene destinata una grande responsabilità dall’Europa», amen.
Insomma, l’estro può spingere «Vicienzo» alla recita a soggetto e a convenienza. Crozza è una cartina di tornasole rivelatrice. Se Bersani, del tutto sprovvisto di forza comunicativa, è costretto a rubargli «il giaguaro da smacchiare» per farne lo slogan della campagna elettorale 2013 e insomma a imitare il proprio imitatore per trovare un’identità, De Luca rovescia il paradigma: qualsiasi gag del comico genovese su di lui appare scialba rispetto all’originale, che è commedia dell’arte, appunto.
Machista, politicamente scorretto, «Vicienzo» interpreta «l’omo de panza» o «uomo di conseguenza», padre del suo popolo, figura venerata dai napoletani; senonché, da salernitano adottivo (viene da Ruvo, Basilicata), ha per Napoli un’idiosincrasia conclamata, quasi quanto quella che nutre per il Pd, come osserva Simona Brandolini. Populista prima che il populismo fosse di moda, sessista prima che Me Too mettesse qualche paletto, balza nella modernità sostituendo Facebook a Lira Tv. Dà della «bambolina imbambolata» a Virginia Raggi, la ministra Giulia Grillo sostiene che passi tutto il tempo a insultarla. Con Salvini, suo naturale antagonista teatrale, ha un tocco da querela: «Capitone», «fondoschiena usurato». Perfino il Capitano leghista, pure uso a distribuire improperi, appare interdetto: «Indegno continuare su questa strada». Per non offendersi, basta rammentare che «Vicienzo» non è reale. Pare che in gran parte non lo fossero nemmeno i manganelli in mano ai suoi vigili. Lo raccontò un suo luogotenente deluso: «Di veri ce n’erano venti, gli altri erano di plastica, per i fotografi».