ItaliaOggi, 5 luglio 2023
L’arte dei Matchibako ovvero vendere i fiammiferi con gusto
Buona parte del fascino della disciplina del design grafico riguarda la continua sfida di superare e persino sfruttare i precisi limiti posti dalle caratteristiche e dalle dimensioni della superficie da «decorare».
Un esempio particolarmente calzante si trova con le affascinanti matchibako giapponesi prodotte negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, quando i giapponesi, insieme con gli svedesi, dominavano ancora il mercato mondiale dei fiammiferi.
«Matchibako» è infatti la traslitterazione giapponese del termine inglese «match box», scatola di fiammiferi.
Il fatto è che i fiammiferi si somigliano tutti e, dal punto di vista commerciale, la cosa importante era riuscire a vendere più la scatola che non il suo contenuto, questo lavorando con la grafica su una superficie molto limitata.
Esisterebbe perfino un improbabile standard internazionale, Gost 1820-2001, di origine russa, che definisce con precisione le dimensioni di una scatola di fiammiferi: 5,05x3,75x1,45 cm…
Lo standard, dal sapore molto «sovietico» (risale al 1925), arriva perfino a stabilire la lunghezza dei singoli fiammiferi, 42,5 mm…
Che i giapponesi abbiano mai rispettato l’indicazione russa è perlomeno dubbio, ma lo spazio grafico è comunque poco. Riuscire a farci entrare un’efficace comunicazione commerciale non è semplice e l’ingegno dimostrato all’uopo dai disegnatori nipponici ha fatto sì che le matchibako dell’epoca siano ormai oggetto di sfrenato collezionismo, particolarmente nei paesi anglosassoni.
Le match box nipponiche sono anche diventate una sfida per i grafici di oggi.
La bozza di matchibako che appare qui sopra è opera recente di un grafico americano che si firma Chet Phillum. È un nome d’arte. L’ossessivo collezionismo dei fiammiferi e affini in inglese si chiama «phillumeny»: in italiano, fillumenistica…