il Fatto Quotidiano, 4 luglio 2023
Un mondo da Santanchè
La ministra agli Stabilimenti balneari privati che traffica coi bilanci della sua azienda e sta con un tizio che millanta titoli nobiliari, tanto da costringere la Casa d’Asburgo-Lorena a diffidarlo su Facebook, è il Balzac che ci possiamo permettere, interpretato da Boldi e De Sica per la regia dei Vanzina.
La ministra ai Cinepanettoni accorpa in sé, quasi comicamente, tutti i tratti della razza padrona e cafona che imperversa ormai da decenni in Italia.
I soldi sono come la droga, che esacerba il carattere di chi ne fa uso: se sei di temperamento sensibile, i soldi ti eleveranno vieppiù; se sei di grana grossa e levatura dozzinale, accresceranno la tua volgarità. In quale categoria rientra Daniela Santanchè?
Il portfolio opulento del nostro Umberto Pizzi la ritrae in scatti che sono un lombrosario monografico: bionda in giacca di renna, cintura texana e filo di perle; mora con abito in tulle Just Cavalli e orecchini Swarovski, in compagnia di Umberto Smaila e di una erede Swarovski; in Pucci al matrimonio di Briatore, con cappello a tesa di diametro satellitare; con Verdini, le labbra marrone lucido protese nel bacio; a Cortina, paillettes e messa in piega contundente; con Assunta Almirante, entrambe pellicciate di lapin; in Campidoglio, gonnellino inguinale, chiappe in vista. Vita Smeralda, gaudente, sibarita, la ricchezza come misura del valore, sanatoria estetica, lasciapassare totale. Santanchè sembra un prototipo, un cliché di fabbrica, un messaggio lanciato agli alieni su come sono i ricchi occidentali nel XXI secolo.
Sposata a 21 anni col chirurgo estetico Paolo Santanchè, si vantò di esserne il catalogo in tutta Italia isole comprese. E in effetti nella maschera parossistica ha espresso il berlusconismo con tutto il corpo come Wagner il suo teatro totale. Dito medio levato, ghigno stizzoso, ugola lanciata nei cieli d’isteria: così tanto sforzo per arrivare a così poco.
Sebbene rivendichi con orgoglio di essere fascista, è più un tipo particolare di squalo classista e neoliberista, che riconosce solo l’etica della competizione. Vorticava, ancora biologicamente giovane, nel giro di danza del post-fascismo di Fiuggi, protégé di La Russa, chiedendo ordine e legalità (quando Fini la scansò, lei disse: “Umanamente è una merda”), salvo subito dopo consacrarsi menade del culto di Arcore, trasfigurata in erinni quando si trattava di difendere Berlusconi, un faro di legalità, per poi mollarlo e dedicarsi a più redditizie mansioni.
L’impianto merceologico (tutto è monetizzabile, specialmente la reputazione) la rende simile a Renzi, che è meno ricco di lei, ma altrettanto incline al fascino del bonifico, sostanziato in voli su jet privati e altre pacchianate da provinciali arricchiti; Renzi, che chiede di verificare se i giornalisti del Fatto “prendono soldi” dalla Rai, cioè se si fanno remunerare per il loro onesto lavoro, mentre lui letteralmente prende soldi dall’Arabia Saudita, una dittatura in cui torturano e uccidono la gente, per sponsorizzarla come culla di un nuovo Rinascimento (lui dà l’investitura in quanto ex sindaco di Firenze). E del resto Santanchè minacciò di comprarsi L’Unità, certo per soldi ma forse anche per divertimento e per sfregio, e oggi la sua ditta è concessionaria di pubblicità sul Riformista di Renzi.
Entrambi hanno biasimato “i furbetti del Reddito di cittadinanza” e insultato i legittimi percettori; nel mentre lei, secondo le accuse, non pagava dipendenti e fornitori, intascava i Tfr, metteva gente in finta cassa integrazione, incassava i bonus pandemia, sfrecciava in Maserati e non pagava le multe; Renzi si faceva assumere dal padre poco prima di essere eletto alla Provincia così da maturare i contributi. Lei a Cortina voleva l’aeroporto, lui in ferie a Courmayeur andava con volo di Stato. Gente impunita, pronta a liquidare ogni rilievo come giustizialismo o moralismo, perché ignara della differenza tra “moralista” e “morale”.
Per inciso il Twiga, stabilimento dei vip in Versilia, dove una “experience” in tenda araba costa 700 euro al giorno, fattura 6 milioni l’anno e paga allo Stato 17mila euro di canone, roba che persino il suo socio Briatore s’è vergognato, ma non Santanchè; la quale ha speso 9 milioni di euro nostri per commissionare e diffondere la campagna “Open to meraviglia”, per conto del ministero del Turismo e Enit (Ente guidato da una proprietaria di un’agenzia di viaggi sua amica), la porcheria ormai nota in tutto il globo terracqueo. “Noi come Italia non ci sappiamo vendere”, ha detto, esclusi i presenti ovviamente. Dopo l’alluvione in Emilia-Romagna ha sentenziato: “L’importante è che si dia una immagine positiva della riviera”, mica aiutare chi è rimasto senza casa e senza lavoro. Dare un’immagine positiva, vendersi, fatturare (quest’ultima cosa invero con riluttanza).
I cittadini italiani lavorano per questi qua, per mantenerli e perché possano mantenere il loro stile di vita. È la politica calpestata dal potere più crasso e ignorante della storia.