la Repubblica, 4 luglio 2023
La diarchia del Ventennio. Cronaca della fine del fascismo (2)
Da protocollo l’appuntamento di quel 21 luglio al Quirinale doveva servire a informare il Re sull’incontro di due giorni prima tra Hitler e Mussolini a Feltre, dove il Duce sapeva di aver deluso gli uomini che lo accompagnavano a villa Gaggia, e si aspettavano un chiarimento definitivo col Führer sulla guerra: o la Germania si impegna a fornire a Roma gli armamenti per resistere agli Alleati - mille aerei e divisioni corazzate - oppure l’Italia deve trovare una soluzione. Il Capo del governo non può fingere di non sapere, il generale Ambrosio, Capo di Stato Maggiore, gli ha spiegato che la situazione militare è catastrofica, la difesa rischia di cedere entro 15 giorni. Ma il Duce non riesce a far valere le sue ragioni con Hitler che monopolizza la conversazione, non gli lascia spazio. Il Führer appare invecchiato, trascina i piedi, è pallido, curvo, sembra una larva spenta ma ha un obiettivo chiaro: se arriveranno gli aiuti tedeschi la Germania avrà il comando, guidando le azioni congiunte con l’Italia.
Dopo appena mezz’ora un funzionario degli Esteri entra nella sala e si china all’orecchio del Duce: «In questo momento Roma è sotto una violenta incursione aerea nemica». La partenza dei due dittatori viene anticipata, alle 17 si salutano con una stretta di mano e un impegno di Mussolini: «La causa è comune, Führer». Sull’aereo che decolla il fatalismo del Duce sta quasi per sopraffarlo, mentre passa in rassegna gli eventi negativi che si sommano l’uno all’altro e sembrano circondarlo. Quelle ore passate con Hitler sperando in una soluzione al problema militare, inutilmente. L’insistenza del Führer nella critica ai generali italiani. Il messaggio congiunto di Roosevelt e Churchill trasmesso sulle onde radio clandestine e scritto nei manifestini che sabato 17 luglio gli aerei alleati hanno lanciato sulla capitale, indirizzati al popolo italiano. Per ricordare che la guerra «è il risultato della politica vergognosa che Mussolini vi ha imposto solo per gli interessi della Germania nazista, indegni delle tradizioni di libertà e cultura del popolo italiano»; e per ribadire che «l’unica speranza che l’Italia ha di sopravvivere sta in una capitolazione, abbandonando la Germania e i Capi fascisti», perché «è venuto il momento di decidere se gli italiani debbono morire per Mussolini e per Hitler, o vivere per l’Italia e la civiltà».
Improvvisamente tutte quelle parole prendono corpo nello scenario da tragedia che appare ai finestrini dell’aereo del Duce, mentre sta scendendo su Roma nella sera: colonne di fumo tra il Quirinale e Termini, puzza di bruciato che sale dalla distruzione, una nuvola nera sopra la capitale, centinaia di vagoni incendiati nella stazione del Littorio che continua a ardere, il campo d’atterraggio devastato. E mentre l’aereo vira su Centocelle la bassa quota rivela il cammino dell’esodo, famiglie in fuga sulla Tuscolana, in marcia sulla Casilina, in colonna sull’Appia per lo sfollamento, spingendo sui carretti e sui camion ciò che resta delle loro case e delle ultime speranze bombardate. Il Duce vede la città santa, che tutti pensavano protetta dal suo deposito di storia, violentata dalle bombe. In più con il Re e persino il Papa subito presenti a San Lorenzo tra la popolazione colpita, e lui lontano, assente proprio nel momento dell’attacco al cuore simbolico del Paese, col partito che non riesce a riempire quel vuoto, dopo un ventennio di confisca personale del potere.
Il partito: appena lo evoca il Duce rivive il fastidio quasi fisico che ha provato pochi giorni prima quando il segretario del Pnf Scorza si è presentato a Palazzo Venezia insieme a un manipolo di gerarchi tra cui Farinacci, De Bono, Bottai, Acerbo e Teruzzi, l’unico in sahariana bianca. Scorza spiega che il quadro militare in Sicilia è criticissimo, che lo Stato Maggiore è sfiduciato e potrebbe covare persino l’idea del colpo di Stato, che i cattolici stanno già annusando nuove soluzioni, che le masse operaie sono ostili e facili prede dei Kerenskij e dei Lenin: serve subito la sostituzione di tutti i responsabili del comando, ministri compresi. Prima di arrivare dal Duce, Giuseppe Bottai aveva evocato un’immagine drammatica: «I veleni della decomposizione ci attossicano. Bisogna fermare la cancrena». Adesso, di fronte a Mussolini, denuncia una crisi di autorità pericolosa, l’urgenza di agire: «Non siamo qui a chiedere di diminuire il tuo potere, ma per condividere la tua responsabilità, dando al Paese la consapevolezza di un comando non puramente personale ma collettivo, riattivando il Gran Consiglio e le Camere e ritornando alla Costituzione».
Attraverso queste parole (cui si aggiunge Farinacci, per chiedere una riunione immediata del Gran Consiglio, che non si raduna da quasi quattro anni) Mussolini vede prendere corpo nella sua stanza quelle voci di golpe bianco che impazzano nei salotti di Roma, con un ritorno in sella del Re, un nuovo governo, l’imbalsamazione del Duce in un ruolo simbolico, il Principe Umberto al comando delle forze armate al suo posto. Sembra ipnotizzato da questa visione della fine, quasi attratto. «Ebbene — concede per chiudere la riunione — convocherò il Gran Consiglio, anche se si dirà che si riunisce per discutere la capitolazione. Ma lo farò». È l’inizio dello sfaldamento nel vertice fascista, con i gerarchi che strappano al Duce un appuntamento politico per la prima volta imposto. E tutto questo nella stanza del comando, accanto a quel balcone di marmo da cui il dittatore dominava l’Italia, fino a trascinarla nel conflitto tra le ovazioni della piazza: davanti a quel lungo tavolo con tre telefoni (uno per le chiamate dirette delle amiche), medaglie sparse, piccole statue di vittorie alate, gagliardetti, un’aquila di ceramica e la pistola carica nel cassetto. Eccitati e spaventati dal limite gerarchico che hanno appena attraversato, i Capi fascisti guardano il Duce: sembra riposato, libero dai dolori di stomaco, ma con un sorriso artificiale sulle labbra per nascondere la sorpresa, come un animale costretto a indietreggiare ma pronto ad attaccare alla prima occasione. Anche lui li sta fissando ad uno ad uno nel giorno della loro prima ribellione. Più che ascoltarli, sembra che li misuri e li pesi domandandosi dove potranno mai arrivare, e intanto fiuta nell’aria il grande dubbio che affiora proprio nello scenario monumentale e autoritario di Palazzo Venezia, quasi una profanazione che annuncia la sconfitta. Quando i gerarchi se ne vanno il Duce tenterà di dissimulare il malumore con una domanda maligna al segretario De Cesare: «Chi era tutta quella gente malvestita»? Ma poi con Scorza rivela il suo vero stato d’animo: «È stato un pronunciamento». Dunque, esattamente un “pronunciamiento”, alla sudamericana: l’avanguardia del golpe.
Il Re sapeva tutto, e faceva finta di niente mentre invitava con un gesto Mussolini a sedersi davanti a lui, al Quirinale. Era mattina, le 11, e Vittorio Emanuele III sembrava preoccupato e nervoso. «Una situazione così tesa non può più durare a lungo. La Sicilia ormai è andata. I tedeschi ci giocheranno un colpo mancino. La disciplina delle truppe è scaduta. Gli avieri di Ciampino durante gli attacchi sono fuggiti fino a Velletri: lo chiamano “diradamento”. L’attacco dell’altro giorno io l’ho seguito da Villa Ada, sulla quale sono passate le ondate. Non credo che fossero quattrocento gli apparecchi incursori, come si è detto: erano la metà. Ma la storia della città santa è finita». Poi un gesto di rassicurazione, più amichevole che politico: «È un’ipotesi assurda, ma se tutti dovessero abbandonarvi io sarei l’ultimo a farlo. So quanto l’Italia e la dinastia vi devono». Nelle parole del Re pesa l’amarezza per l’accoglienza fredda della popolazione a San Lorenzo, quando il Sovrano è comparso tra le rovine, mentre i fedeli si inginocchiavano nei calcinacci davanti al Papa che tendeva le braccia al cielo. È come se il carico opprimente dei due decenni di dittatura, l’amputazione dei diritti e la soppressione delle libertà si sommassero con il disastro della guerra, la fame, le bombe: e il conto finale, in attesa di Mussolini, venisse intanto presentato al Re, che scopre di essere inevitabilmente legato al Duce, dopo aver accettato per anni che la figura pubblica del dittatore si sovrapponesse alla sua.
Qualche frizione, naturalmente, ma mai una vera ribellione del monarca alle mosse del Duce che restringeva giorno dopo giorno il perimetro del trono. Timoroso di un colpo di mano sulla Corona, contemplatore della sua stessa debolezza, teorico della prudenza e incline a trasformarla in indecisione, il Re aveva finito ogni volta per ingoiare tutto. Solo quando nel 1928 viene attribuito al Gran Consiglio il potere di indicare la rosa dei candidati per la successione a Mussolini, limitando una prerogativa regia, e addirittura viene concessa all’organo supremo del fascismo la potestà, in caso di trono vacante, di esprimere un’opinione sul processo dinastico di scelta, il monarca ha un soprassalto. Aveva taciuto sull’Aventino, con l’abbandono del parlamento da parte delle opposizioni in segno di protesta per le norme liberticide; non aveva condannato l’infamia dell’uccisione di Matteotti; era rimasto in silenzio per le leggi che sopprimevano la libertà di stampa. Ora ha una breve tentazione di marcare la sua autonomia: ritarda la firma, per lo spazio utile a far intendere — prima di cedere — il suo disappunto. Che non riguarda la violenza omicida contro uno dei capi dell’opposizione parlamentare, ma lo svuotamento delle potestà sovrane, l’unica frontiera che Vittorio Emanuele prova a difendere: inutilmente, come quando Mussolini vuole nominarsi “Comandante in capo delle forze operanti”, per poi attribuirsi con una proclamazione in parlamento il titolo supremo di “Primo Maresciallo dell’Impero”, che per quieto vivere verrà poi esteso anche al Re. È il primo scontro, come il Duce rivela in una telefonata (intercettata) a Claretta:
«Ho portato alla firma il decreto per la mia nomina a comandante supremo di tutte le Forze Armate e lui non l’ha voluto siglare, ha tirato in ballo lo Statuto, le prerogative della Corona, eccetera…»
«E allora?»
«Ha fatto un comunicato in cui io vengo nominato comandante delle forze operanti».
«Ma non è la stessa cosa?»
«Affatto! Anche per il semplice motivo che tale carica la tengo da ben 18 anni. Lui rimane il comandante supremo di tutto».
«A me sembra che nella guerra 1915-’18 il comandante supremo fosse lui».
«Anche questo è vero, ma c’è una grande differenza: allora in Italia non c’era il Duce».
Insofferenza. Tensione. Ma il sovrano ha ormai ceduto la sua primazia, mostrandosi interessato soltanto alla sopravvivenza delle più fondamentali prerogative regali, da conservare per trasmetterle agli eredi. È una tutela dei Savoia, non degli italiani: la dinastia lo preoccupa più della tirannia. Per il resto è sordo e cieco, come rivela la sua firma sulle leggi razziali, con una riserva sentimentale che non blocca la vergogna: per tre volte, mentre sigla il suo consenso, ripete al Duce di provare «un’infinita pietà per gli ebrei». La verità è che una vera e propria abdicazione strisciante si sta consumando al Quirinale: Vittorio Emanuele III ha ormai abdicato allo Statuto.
Solo, scettico e appartato, isolato per scelta, avvilito per carattere, il monarca non si accorge della smania crescente di Mussolini, consigliato dalla prudenza a coprire la sua dittatura con la maestà della Corona, ma istigato dall’insofferenza a liberarsi del vincolo regale, l’ultima sopravvivenza del vecchio ordine. Il Duce si domanda perché debba subire quella convivenza e morde il freno quand’è costretto a rimanere un passo indietro nell’iconografia ufficiale durante la visita a Roma di Hitler nel 1938, come vuole il cerimoniale di Palazzo. Ripete che 16 milioni di lire in appannaggio per il mestiere più inutile del mondo sono troppi. Spiega che prima o poi una rivoluzione «senza preservativo» farà piazza pulita e porterà alla Repubblica. E intanto forza ogni volta il costume istituzionale, senza mai incontrare una vera reazione di Vittorio Emanuele: il Re accetta che nelle cerimonie pubbliche l’inno fascista venga intonato subito dopo la Marcia Reale, e guarda il fascio littorio che s’innalza sui pennoni dei palazzi, contendendo lo spazio al tricolore e soverchiando lo stemma sabaudo.
Ma è lo spettacolo del discorso della Corona, che inaugura ogni nuova legislatura, a rivelare a ciò che resta del parlamento la contiguità tra le due figure che guidano il Paese. Alzandosi dal trono a Montecitorio, con la Regina e gli augusti principi alla sua destra, i ministri e i dignitari di Corte a sinistra — più il codazzo familiare delle Loro Altezze il Duca di Genova, il Duca d’Aosta, il Conte di Torino, il Duca delle Puglie, il Principe di Udine, il Duca di Pistoia e il Duca di Bergamo — il Sovrano ogni volta elogia «il mio governo», leggendo il testo scritto da Mussolini. Nel 1924 esalta «la confortante potenza demografica della razza» e saluta «il Paese che, fatto sicuro del suo avvenire, ha accelerato il suo ritmo di vita e ha dato sanzione solenne alla nuova situazione politica, espressione di una fase storica di grande importanza e significazione». Nel ’29 rivendica «la politica sociale dell’Italia fascista, superiore a quella di ogni altra nazione». Nel 1934 evoca «il trinomio autorità, ordine, giustizia», assicurando che non sarà più turbato «perché l’ordine pubblico è diventato ordine morale, cioè atto di adesione allo Stato».
I due uomini sono diversi in tutto, introverso e pessimista il Re, esuberante e titanico il Duce, corporeo e fisico nell’esibizione di sé quanto invece il sovrano sfugge alla sua stessa immagine, evoca un simbolo più che una presenza: uno cerca gli sguardi mentre afferra il comando, l’altro li evita, il potere per lui è un lascito ereditario che deve solo custodire. Ma tra loro nasce necessariamente un dialogo e sorprendentemente un’intesa, o almeno un metodo, che porterà Vittorio Emanuele a elogiare Mussolini con gli ambasciatori. Di più: l’8 giugno 1938, con un gesto che non ha precedenti, il Re con la Regina arriva in visita alla casa dov’è nato il Duce a Predappio, come se fosse un santuario di Stato, e sosta al cimitero del paese davanti alla tomba dei suoi genitori, per arrivare al vero rifugio di famiglia, la Rocca delle Caminate, con un mazzo di rose per Rachele. Lei ha ordinato aranciate e panini imbottiti per gli augusti ospiti al buffet della stazione di Forlì, così come quando dovrà ospitare un banchetto ufficiale per la visita di Stato del Conducator rumeno Ion Antonescu, si farà imprestare il servizio d’argenteria dal ministero degli Esteri. Con quel menu ferroviario davanti e un panino in mano Vittorio Emanuele passa da una stanza all’altra, entra nello studio di Mussolini austero e asciutto, quasi medievale, si ferma all’ingresso di fronte alla fotografia del Duce sciatore a torso nudo nella neve, al ritratto di Rachele coi capelli al vento a trent’anni: «Non siete affatto cambiata».
Questa regia benevolenza per il dittatore coinvolge la Regina Madre, Margherita, che nomina Mussolini suo esecutore testamentario e gli regala una medaglietta di Sant’Antonio. Ma da parte del Re c’è qualcosa di più, una vera e propria riconoscenza della dinastia Savoia, che il Duce ha indebolito verticalmente nell’esercizio del potere, ma ha dilatato negli orizzonti, aprendole una nuova dimensione. Il 9 maggio 1936, con l’alzabandiera ad Addis Abeba dopo l’ingresso delle truppe guidate dal maresciallo Badoglio «e la vittoria della civiltà sulla barbarie», Mussolini può infatti annunciare «la rinascita dell’impero sui colli fatali di Roma», e Vittorio Emanuele assume per sé e per i suoi successori il titolo di Imperatore d’Etiopia, nell’esaltazione della piazza. Quando rimangono a tu per tu, smaltito il fragore epico della giornata, il Re offre al Duce il titolo di Principe. «Maestà — è la risposta — io voglio essere solo Mussolini». Nell’aprile di tre anni dopo una sfilata di carrozze entra al piccolo passo nel cortile del Quirinale per portare nella sala del trono, davanti al Re e alla Regina, gli uomini della delegazione di Tirana guidata dal nuovo Primo Ministro Shefqet Vërlaci. S’inchinano per offrire a Vittorio Emanuele la corona d’Albania e l’elmo col simbolo della capra di Giorgio Scanderbeg, il fondatore dello Stato appena conquistato dall’Italia con l’occupazione. Il Re (che era contrario all’invio di 22 mila soldati oltremare «per conquistare quattro sassi») accetta il giuramento di fedeltà dei dignitari di Tirana nei costumi tradizionali, con i ministri in tight. Sotto le cineprese dell’istituto Luce, gli albanesi sembrano stupiti dal contrasto tra quel piccolo Re seduto su un grande trono dorato, e il silenzio del vero padrone del Paese, Mussolini, ai piedi dello scranno sovrano.
Ma nella primavera del ’43 la diarchia è attraversata da crepe evidenti, anche sulla spinta improvvisa degli scioperi operai che a marzo nascono a Mirafiori per allargarsi alla Riv, alla Pirelli, alla Falck, coinvolgendo Milano, il Biellese, l’Emilia, Marghera. Dopo un ventennio di silenzio nel controllo totale, l’impressione nel Paese è che gli scioperi siano la prova di una crisi generale di consenso, tanto che Mussolini il mattino del 6 marzo striglia il prefetto di Torino:
«Mi risulta che in cotesta provincia serpeggia un grave malumore nell’ambiente operaio, e che ci sono stati perfino tentativi di sciopero. Ciò è inammissibile».
«Duce, per la verità ci sono state delle proteste abbastanza vibrate, specialmente alla sezione motori della Fiat e a Villar Perosa».
«E quali sarebbero le ragioni?»
«Il ritardo nella distribuzione dei generi tesserati. Sono insufficienti e non abbiamo scorte».
«Questo è soltanto un pretesto. Bisogna tenere gli occhi aperti perché sono state segnalate ricostituzioni di gruppi sovversivi. Vigilate!»
«Comandate, Duce».
È chiaro l’allarme politico, è evidente l’inquietudine. Alimentata soprattutto dai sospetti, e dalle rivelazioni: a Castelporziano un custode consegna al Duce una lettera in cui gli dice di guardarsi dal Re «che è diffidente e in malafede».
Poi l’8 maggio una dama di Corte conferma a Rachele l’avvertimento, raccontando episodi e facendo nomi e cognomi: la principessa Maria José, sempre critica, riservata ma chiaramente in dissenso; il principe Umberto che riunisce segretamente a Castelporziano i gerarchi più insofferenti o incerti, come Ciano e il sottosegretario agli Interni Albini; il Re che dopo tre anni ha ricominciato a vedere riservatamente i vecchi leader antifascisti. È la spontanea deriva degli eventi che lambisce il trono e interpella il Re. Vittorio Emanuele, che ha accettato l’eccezione continua allo Statuto da parte del fascismo, ormai non può più ignorare che la sua convivenza con Mussolini agli occhi dei cittadini si è trasformata in connivenza e la sua eterna ossessione di proteggere la dinastia gli fa intravvedere a questo punto il pericolo di trascinarla in un possibile crollo del fascismo. È quel che gli ripetono nelle udienze tutti, anche i gerarchi che ormai parlano a ruota libera (e a porte chiuse), incoraggiati dagli spifferi del Palazzo che rivelano le preoccupazioni crescenti del sovrano: e sospinti dall’abilità manovriera del duca Pietro d’Acquarone, il ministro della Real Casa dal 1939, che sta diventando il nodo dove si stringono tutti i fili sottili attraverso cui si cerca una via d’uscita dalla dittatura, dalla guerra, dal disastro.
Tutta Roma sembra tramare in un complotto universale intessuto di sussurri, velleità, affidamenti, ipotesi, giuramenti: e sempre meno carico di paura. La moglie Rachele ripete al Duce di diffidare del “cugino” Badoglio, come lui Collare dell’Annunziata, ma avvelenato per la sostituzione da Capo di Stato Maggiore, la figlia Edda gli consiglia di tenere d’occhio Grandi e le sue mosse sotterranee, Ciano riceve una chiamata brusca da Mussolini che gli chiede conto di una cena segreta con altri membri del Gran Consiglio. Il Re è al centro di questa corrente impazzita, tutti cercano di influenzarlo, di convincerlo, di smuoverlo. Sia pure compromesso, è lui la leva che può schiodare il sistema, senza il Re non si fa nulla. Il sovrano dà udienza, riceve, ascolta, e non parla. Sembra assorbire in silenzio le pressioni, le suggestioni, le invocazioni portate a Palazzo dai suoi ospiti. Ma nell’impenetrabilità di Vittorio Emanuele il punto d’equilibrio tra il trono e il Paese si sta spostando progressivamente. Dov’è oggi l’interesse dell’Italia, dov’è più prosaicamente il suo punto di rottura? Bisogna trovare il modo per agganciare gli Alleati, recuperare la credibilità sufficiente per un minimo negoziato, provare il salto mortale di un’uscita dalla guerra tenendo a bada Hitler: ma per avviare questa operazione è necessario ripudiare la dittatura, smontare il fascismo, neutralizzare Mussolini. Difficile, per il vecchio Re, quasi impossibile dopo la diarchia col Duce: ma questa, ripetono tutti i visitatori al sovrano, è l’unica strada per non finire stritolati dentro la camicia nera che imprigiona la nazione.
Alla deriva, Mussolini trascorre le ultime settimane a Palazzo Venezia celebrando quotidianamente i due riti personalissimi del suo potere, le elargizioni a chi gli ha rivolto una supplica e il controllo delle conversazioni telefoniche registrate dal SSR. Il 23 marzo — numero archivio 549.776 — fa inviare un apparecchio ortopedico a Giorgio Gavallotti, segnalato dal padre Alfredo, il 26 aprile risponde all’ira di Giuseppe Barile («A quale Santo debbo rivolgermi per avere giustizia?») che gli ha inoltrato tre volte una denuncia senza ricevere attenzione, ancora il 7 luglio appoggia una domanda di trasferimento da Forlì a Bologna della professoressa Anna Menghini. Poi fa scrivere a Olga Bastianelli, moglie di un vecchio medico e figlia di un garibaldino, che si è rivolta a lui perché non riesce più a pagare le 450 lire al mese di tasse arretrate, manda 500 lire a Losurdo Vito fu Pietro, naufrago del piroscafo “Brioni” che ha cinque minori a carico e vive miseramente, fa intervenire il prefetto di Genova per Emma Bombardi che dopo i crolli per i bombardamenti lo informa di «essere rimasta priva di tutti gli indumenti», spedisce 200 lire a Michele Colombara per festeggiare la nascita di due gemelli. È il tentativo di rimanere in contatto col popolo: che intanto spia nelle conversazioni telefoniche private che rivelano il malcontento, attraverso i rapporti che gli arrivano sul tavolo dagli intercettatori, impegnati ad ascoltare chiunque. A Bari la macelleria Padolecchia (telefono 12-888) mentre aggira il razionamento: «Vai a domandare al colonnello quanta carne vuole, fa presto». «Prenderei un chilo e mezzo per il colonnello e qualcosa per me»; a Bologna la Sezione Provinciale di Alimentazione che confessa: «A Rimini si trova tutto ciò che vuoi, ma si tratta come sempre di avere quattrini»; a Padova il direttore dei consorzi agrari, rassegnato: «È possibile far venire da Napoli un po’ di albicocche?» «Non c’è nulla da fare». «Io non capisco più niente, la merce sparisce in modo spaventoso. È roba dell’altro mondo»; a Milano la ditta Garfagnana e figli, che riceve una chiamata: «che prezzo fate per le ciliegie “durone”?» «Sulle 500 lire, ma ora Il Duce ne regala due vagoni a Hitler, e ce le paga 800 lire al quintale»; a Genova il direttore del Monopolio Banane (foglio 103860) «perché fa conversazioni amorose con la propria amante valendosi dell’apparecchio di Stato». Annotazione in calce, col lapis: «Paghi anche gli arretrati».
(2. Continua)