La Stampa, 4 luglio 2023
Luglio 1943, il mese che ha cambiato l’Italia
Luglio 1943: il fascismo e Mussolini sono arrivati al capolinea della loro storia. Alcuni hanno capito che la guerra sarebbe stata fatale sin dall’inizio, di fronte alla sproporzione tra le ambizioni imperialiste del regime e le possibilità economico-militari del Paese; qualcun altro lo ha compreso nell’autunno/inverno 1942, dopo le sconfitte di El Alamein e la ritirata di Russia; qualcun altro ancora nel marzo 1943, quando gli scioperi nelle fabbriche del nordovest hanno rappresentato la prima manifestazione di dissenso dopo vent’anni di ordine e di allineamento.
Ma è nel luglio 1943 che la rottura diventa insanabile: nella notte tra il 9 e il 10 gli angloamericani sbarcano in Sicilia e anziché essere respinti «sulla linea del bagnasciuga» (come promette il Duce, scambiando la battigia della spiaggia con il «bagnasciuga», che è invece la linea di galleggiamento di una nave) dilagano in tutta l’isola senza quasi trovare resistenza. È la prima volta, dacché il conflitto è iniziato, che la guerra terrestre arriva sul suolo italiano: sino ad allora erano state le armate italiane ad aggredire, sconfinando in Francia, in Grecia, in Jugoslavia, in Egitto, in Unione Sovietica.
Poco più di una settimana dopo, il 19 luglio, c’è il primo bombardamento su Roma, ritenuta inviolabile perché sede del Vaticano e protetta dall’eccellenza della contraerea nazionale: le bombe vengono sganciate sullo scalo di San Lorenzo ma presto si allargano sino a colpire l’intero quartiere e quelli vicini: centinaia di vittime, feriti in ogni strada, stabili distrutti o lesionati, incendi, decine di migliaia di cittadini sinistrati. In tre anni di guerra i bombardamenti erano stati numerosi (a cominciare da quello su Torino, l’11 giugno 1940, 36 ore dopo l’inizio delle ostilità) ma si erano concentrati sui centri industriali e sulle infrastrutture portuali e ferroviarie: la violazione della capitale ha invece un significato politico e militare nuovo, che va al di là dei danni umani e materiali pure ingentissimi. Ormai è chiaro: la guerra fascista sta portando la Nazione verso la catastrofe.
È a questo punto che interviene il re Vittorio Emanuele III e le sue scelte peseranno come macigni sul futuro del Paese (per come vengono fatte, per la loro tempistica, per i troppi timori, prudenze e diffidenze che le accompagnano). La dinamica dei fatti è nota: il sovrano e il suo fido ministro della Real Casa duca D’Acquarone preparano il "colpo di stato reale" appoggiandosi ai vertici della Forze Armate (dal Capo di Stato maggiore generale Ambrosio, al Capo di SME Roatta, all’ammiraglio De Courten e al generale a riposo Pietro Badoglio); usano i "fascisti revisionisti" di Grandi, Federzoni e Bottai per un voto di sfiducia a Mussolini da parte del Gran Consiglio che garantisca la legittimazione costituzionale alla destituzione; preparano un esecutivo d’emergenza fatto da tecnici e guidato da Badoglio; interloquiscono con Bonomi, Orlando e altri antifascisti liberali per garantirsene la solidarietà senza tuttavia coinvolgerli direttamente. L’operazione, scattata nel pomeriggio del 25 luglio, è condotta dall’esercito con determinazione e riesce al di là delle aspettative: Mussolini viene arrestato e il partito fascista, paralizzato dalla sorpresa e disorientato dalla mancanza del "Capo", «si scioglie come neve al sole» (commenterà Hitler).
Su tutta la vicenda grava però un fondamentale limite strategico: il rovesciamento del regime è conseguenza della guerra ormai persa, ma nella preparazione del colpo di stato non è contemplata l’uscita contestuale dal conflitto.
Nei mesi che hanno preceduto il 25 luglio i passi compiuti per stabilire un contatto diretto con gli Angloamericani e giungere a una pace separata sono stati deboli e discontinui, affidati a iniziative singole (quelle dei consoli italiani a Lisbona e a Ginevra con gli omologhi britannici, quella di Alberto Pirelli attraverso il Vaticano). Su questa indecisione pesano le priorità attribuite all’operazione: il colpo di stato è in primo luogo uno strumento di restaurazione interna, nel quale predominano le urgenze di riaffermare l’autorità regia e di garantire stabilità sociale. La testa di Mussolini è il prezzo da pagare per riacquistare credibilità con gli Angloamericani e trattare un armistizio anziché accettare la resa incondizionata (che significherebbe la fine della dinastia e della sua classe dirigente).
Vittorio Emanuele III raggiunge l’obiettivo: l’armistizio firmato a Cassibile il 3 settembre assicurerà la continuità di "quella" dinastia, di "quel" governo, di "quei" vertici militari. Ma i Tedeschi, che per tutta l’estate continuano ad essere nostri alleati, ben sapendo che l’Italia sta preparando l’uscita unilaterale dall’alleanza, trasferiscono nella Penisola tutte le truppe che riescono a distrarre dagli altri fronti e si preparano all’occupazione militare, alla liberazione del Duce, alla creazione della Repubblica sociale.
"Uscendo" dalla guerra il 25 luglio, l’Italia avrebbe certamente perso tutte le truppe che aveva dislocate all’estero, che sarebbero state sopraffatte dalla Wehrmacht, ma avrebbe evitato l’occupazione della Penisola, dove erano schierate 28 divisioni del Regio Esercito e solo 8 tedesche: non a caso la maggior preoccupazione di Hitler, alla notizia del rivolgimento politico a Roma, è la sorte delle divisioni di Kesselring dislocate nel Mezzogiorno.
Tra le sorti della Nazione e le sorti della dinastia, Vittorio Emanuele III sceglie la dinastia, liquidando il fascismo ma non la guerra fascista: il 25 luglio non è soltanto la caduta di Mussolini, ma la premessa del dramma che il Paese vivrà nei due anni successivi, dalle Forze Armate lasciate l’8 settembre senza indicazioni, alla fuga di Pescara, alle rappresaglie germaniche, alla guerra civile che attraversa l’Italia per venti mesi.