La Stampa, 4 luglio 2023
Vittorio Sgarbi non si pente
No, no che io non mi pento. È vero. Sono colpevole.
Ma dispiace che la signora Simonetta Sciandivasci voglia farmi una (legittima) predica non sul mio reprensibile comportamento, ma sul metodo di conoscenza proprio del mio mestiere.
Il titolo del suo commento chiarisce le sue riserve: «Capire è guardare, non penetrare». Vero, ma il mio strumento essenziale di conoscenza sono gli occhi, con i quali da anni (credo la Sciandivasci non lo ignori) leggo, interpreto, penetro le immagini. Che occorra guardare mi è non solo chiaro ma vitale, necessario; e, quando leggo: «per capire, si deve guardare dove non guarda mai nessuno: in superficie», non posso non ricordare che trentacinque anni fa, al culmine di una delle mie polemiche con Federico Zeri, contrapposi al titolo di un suo libro, Dietro l’immagine, il mio Davanti all’immagine. Ma gli occhi, rispetto a una lettura, come si dice, «superficiale», ci consentono, se educati, rispetto ad occhi che sfiorano senza comprendere, di andare oltre, in profondità, ovvero di "intelligere" che vuol dire "leggere dentro", cioè penetrare. Che è forse, visto il riferimento ad alcune importanti giornaliste, la differenza tra chi sta in superficie, e scrive per un giorno, e chi va in profondità.
D’altra parte, ci sono occhi e occhi. Milioni di occhi guardano i quadri senza vederli, proprio perché restano in superficie, sfiorano l’apparenza. La funzione critica è letteralmente "penetrazione", vedere l’anima dopo il battesimo oltre la "Venere di Botticelli", o ciò che è dietro un taglio di Fontana, che chiede di andare oltre la superficie. Molti non vedono. Nel caso della Sciandivasci si può dire che, pur nelle legittime critiche alle mie intemperanze, alcuni non vedono e non sentono. Nel contesto preciso dove io ero, come ho detto, a teatro, su un palcoscenico, il mio cazzo come il suo, d’altra parte, era una citazione di una orazione universitaria di Houellebecq, sulla sua (e mia) malattia. E, a vedere bene, io non ero stato chiamato dal Presidente Giuli, che infatti ha introdotto, a parlare come Sottosegretario ma come comprimario (per ragioni di amicizia e anche per sottolineare in cartellone la prevalenza dello spettacolo canoro) di Morgan. E io benevolmente e umilmente ho accettato. Come Leporello, dunque, e l’ho detto, e l’ho dichiarato, per la singolare coincidenza imposta dalla domanda di Morgan, non perché mi senta Mozart e non certamente riferendomi(non potendo prevedere le postume strumentali polemiche di dieci giorni dopo, senza nessuna reazione all’impronta) al «no, che io non mi pento». Questo posso dirlo ora e, per logica, sentendomi Don Giovanni, non Mozart.
Mi riferivo alla meravigliosa aria di Leporello che è un vero e proprio elenco di conquiste: «Madamina, il catalogo è questo
Delle belle che amò il padron mio;
un catalogo egli è che ho fatt’io;
Osservate, leggete con me.
In Italia seicentoquaranta;
In Alemagna duecento e trentuna;
Cento in Francia, in Turchia novantuna;
Ma in Ispagna son già mille e tre.
V’han fra queste contadine,
Cameriere, cittadine,
V’han contesse, baronesse,
Marchesane, principesse.
E v’han donne d’ogni grado,
D’ogni forma, d’ogni età.
…
Delle vecchie fa conquista
Pel piacer di porle in lista;
Sua passion predominante
È la giovin principiante.
Non si picca - se sia ricca,
Se sia brutta, se sia bella;
Purché porti la gonnella,
Voi sapete quel che fa».
Per quest’aria, indecente e sessista per i parametri d’oggi, evocavo il rischio della cancel culture.
D’altra parte, la Sciandivasci forse ricorda che al Maggio musicale fiorentino, con il consenso del Sindaco musicista Nardella, fu messa in scena, nel 2018, una Carmen con la censura e trasformazione del finale per evitare la rappresentazione del femminicidio, ovvero l’omicidio di una zingara. L’aria del catalogo di Leporello, scritta da Lorenzo da Ponte, che io ho mimato grossolanamente, oggi sarebbe improponibile e potrebbe diventare l’elenco delle invitate a un ballo per i diciotto anni. Questa era la situazione, e mi dispiace, non per assolvermi, che la Sciandivasci non lo abbia capito. Forse perché non ama approfondire. Infatti sul finale dell’opera, con il gran rifiuto libertario di Don Giovanni, la Sciandivasci scrive: «è in nome di quella libertà che Don Giovanni va all’inferno, opponendosi a suo padre che gli dice: "pentiti scellerato". Come si fa a non stare dalla parte di Don Giovanni?». Infatti la ribellione al padre è un topos letterario. Peccato che a chiedere a Don Giovanni di pentirsi non sia suo padre ma il Commendatore, fantasma minaccioso del padre di Donna Anna,ucciso da Don Giovanni dopo aver tentato di stuprargli la figlia. Difficile non stare dalla parte del Commendatore, in superficie; ma, penetrando lo spirito dissacratorio di Don Giovanni, si può capire altro, e basta vedere come Mozart descrive il convenzionale promesso sposo di Donna Anna, Ottavio. Stare dalla parte del cattivo è difficile, e non voglio chiederlo alla Sciandivasci.