Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  luglio 04 Martedì calendario

Biografia di David Parenzo raccontata da lui stesso

L’ultimo messaggio arriva alle 2.53 del mattino: «Perfetto domani al Corriere». Firmato: David. E alle 13, eccolo, infatti, in via Solferino.
Parenzo, ma era l’alba!
«Ho portato al teatro Parenti il mio spettacolo “Ebreo”. Tutto esaurito. Farò 40 date, in 40 destinazioni in tutta Italia. In platea vengono i ventenni: pensano di assistere alla Zanzara...».
E invece?
«Invece parlo di pane azzimo e delle mie radici. Dallo spettacolo ne è uscito un libro: Ebreo giudeo naso adunco (Baldini+Castoldi)».
Che poi Schlein direbbe «etrusco»...
«Non so perché l’abbia definito così, io non l’avrei fatto: per me l’identità è quella».
Ed è stata mai un problema?
«Da piccolo soltanto. Alle elementari durante l’ora di religione non dicevo le preghiere, una maestra chiamò i miei genitori: “Vostro figlio si spaccia per ebreo”. Mi cambiarono di istituto. Al liceo invece ogni tanto qualche battuta antisemita: tornavo a casa un po’ ferito».
A Padova il cognome «Parenzo» è sui banchi della sinagoga.
«Andavo tutte le domeniche dal rabbino, avevo imparato a leggere l’ebraico. Ho respirato molto dal papà, avvocato, che è anche uno studioso. E dai nonni. Emanuele Parenzo, anche lui avvocato, venne espulso dallo studio dopo le leggi razziali: scappò in Svizzera con la nonna, che rimase muta per due giorni di fila. Poi c’era nonna Margherita, detta Greta: finì a Bergen Belsen con il padre e la sorella, si salvò solo lei perché parlava tedesco e capiva i comandi».
Non parla mai del nonno materno, invece.
«Era fascista».
Fascista?
«Si chiamava Sebastiano Caracciolo. Figlio di socialisti di Catania, giovanissimo era partito volontario in guerra a Sarajevo e lì aveva conosciuto mia nonna Greta, di cui si era subito innamorato. Il conflitto divise i loro destini: lei deportata; lui catturato dagli inglesi e spedito a Casablanca. Dopo la guerra lui la fece cercare tramite la Croce Rossa e tornarono insieme».
L’ha conosciuto?
«Certo. Fece carriera in polizia, finendo come questore a Cremona. Morì di cancro nel 2013, senza mai rinnegare la propria fede. Non le dico a casa le discussioni: mi ricordo da piccolo, a tavola, con l’altro nonno, quello paterno, che era di sinistra, un po’ radicale, un po’ del Pci... Però, ecco, a questo punto forse è meglio che chiami mia madre. La faccenda è delicata...».
Squilla il cellulare.
Mamma Parenzo: «Pronto?»
David: «Mamma scusami, il Corriere mi fa un’intervista, anche personale. Lo posso raccontare del nonno, lo dico, va bene?»
Mamma Parenzo: «Tuo bisnonno Cellino era contrarissimo che lui partisse volontario!»
Parenzo: «Ma non te l’ho mai chiesto: dopo la guerra, il fatto che la nonna avesse fatto il campo di concentramento e lui avesse combattuto per Mussolini... non era un problema?»
Mamma Parenzo: «Era un grande dolore... Ma nonno Sebastiano non aveva niente contro gli ebrei. Era di quel fascismo idealista, nazionale, nel senso della romanità, dannunziano».
Parenzo: «Quelle cazzate! Ma posso dire anche è stato il fondatore di quella branca della massoneria, del rito...?».
Come, anche massone?
Mamma Parenzo: «Sì, rito scozzese, antico e accettato!».
Parenzo: «Adesso alla Zanzara diranno: ecco, anche tu hai un nonno fascista e pure massone! Ma la situazione era più complessa. Non c’era nulla dell’affarismo di oggi e il fascismo ad un certo punto mise pure al bando la massoneria, c’era in lui quindi questa doppia contraddizione. Questo anche per dire della complessità della famiglia in cui sono nato e in cui sin da piccolo si è parlato di politica». (fine della telefonata con la madre, intanto)
Parenzo, all’inizio comunque lei ha cominciato proprio facendo politica...
«Responsabile esteri della sinistra giovanile. Nel 1996 mi mandarono in missione a Belgrado: incontrai i leader dell’opposizione a Milosevic. Ricordo qualcuno nel partito che mi disse: “Attento perché sono pagati da Soros per conto degli americani”. Già all’epoca, capito? Parlai davanti agli studenti di Filosofia, fu straordinario».
Come finì a fare il giornalista?
«Organizzavo i dibattiti alla Festa dell’Unità, mi notò Sandro Curzi, che aveva fondato Liberazione. Mi disse: “Senti, ti va di fare qualcosa?”. Risposi: “Guarda che nel partito mi considerano già un filo-americano”. Ribatté: “Fai quello che vuoi”. Mi inventai una rubrica che si chiamava “Hamburger e polenta, storie dal mitico Nordest”».
Richiama la madre: «Mi raccomando con quelle notizie di famiglia, soft...». «Sì, sì».
Per anni ha condotto «Iceberg» su Telelombardia: tv locale, ma i leader venivano tutti.
«Una volta venne Pannella, gli feci uno scherzo tremendo assieme a Ignazio La Russa, che era mio complice. Lo chiudemmo in camerino, facendogli credere che la trasmissione fosse già iniziata. La Russa in studio diceva: “Pannella non si presenta, teme il confronto”. Quello impazzì! Poi pretese 20 minuti per uno dei suoi pipponi... In realtà a Marco dobbiamo tanto. La Zanzara viene dall’idea dei microfoni aperti di Radio Radicale».
Cruciani come l’ha conosciuto?
«Dopo una puntata di Tetris di Telese».
Che impressione le fece la prima volta?
«Ho pensato: questo è matto. Ora c’è un’amicizia vera che dura da dieci anni».
Di lui è mai stato geloso?
«No, tutt’altro. Puoi esserlo delle persone che ti sono più simili. Invece io non invidio nulla di quello che lui fa e viceversa».
Litigate?
«Momenti di scazzo ce ne sono di continuo: sul Covid ci siamo scontrati per davvero. Non accettavo il negazionismo».
Ma ha mai pensato di lasciare la «Zanzara»?
«(ride) Sì! Una volta durante lo Yom Kippur non volevo andare in onda. Cruciani era sbigottito: “Ancora con le tue cose religiose!”. Spensi il telefono per 48 ore. Mi cercò pure Telese. Comunque ancora oggi il venerdì sera stacco completamente: infatti l’ultima mezzora della trasmissione è registrata».
Oddio, registrata?
«(ride ancora) Sì, non l’ho mai svelato. Perché alle 8 devo essere a tavola con tutti i bambini per lo Shabbat: mia moglie accende le candele e ceniamo insieme. Una tradizione».
Cruciani ha detto: «Parenzo è l’uomo più insultato d’Italia».
«Ma dal vivo sono circondato sempre da un grandissimo affetto. Si fanno tutti i selfie con me, mi urlano “tigre”».
Tigre?
«Perché un giorno postai una mia foto in palestra, mentre mi allenavo. Una situazione come si capirà abbastanza inverosimile: “Ecco il tigre che si prepara alla battaglia della sera”».
Però qualche volta ha querelato...
«Quando mi hanno toccato come ebreo. Ho usato la legge Mancino. Erano radioascoltatori che chiamavano, oppure alcuni che mi minacciavano al telefono. Ogni mese ricevo ancora decine di messaggi di questo tenore».
Per tornare ai figli: ne ha 4. La ascoltano?
«Margherita, 16 anni, la più grande, avuta dalla mia ex moglie (una ragazza conosciuta ad un campo ebraico , sposata a 26 anni) , ogni tanto mi inoltra pezzi di trasmissione che le mandano gli amici. Mi scrive: “Papà, ma davvero dici queste cose?”. Si diverte. Non ho mai avuto coraggio di chiederle però se ascolti proprio tutto...».
Gli altri? Ovvero quelli avuti dalla sua attuale compagna, Nathania Zevi...
«Nathan, 10 anni, grande talento teatrale, si guarda già tutti i Tg di Mentana. Poi c’è Gabri, 7, molto riflessivo e Noa Tullia, 2, che è un mix».
Con Nathania, giornalista Rai, come è andata? L’ha conquistata lei?
«Diciamo che ho insistito io abbastanza. Non è che mi presentassi con tutte le credenziali in ordine: era più giovane, mi ero appena separato, avevo già una figlia... Ma abbiamo costruito insieme affetti solidi. Ci chiamiamo marito e moglie anche se non siamo sposati e con la mia ex i rapporti sono ottimi: siamo praticamente una famiglia allargata. Poi Nathania lenisce il mio egocentrismo: quando torno a casa, gasato per una bella intervista, mi fa: “Ok, ora butta la spazzatura”».
Qualche tempo fa comunque è intervenuta su Twitter per difenderla da un attacco di Feltri, che l’aveva definita un «falso ebreo».
«Ma Vittorio non è assolutamente antisemita. È solo che ogni tanto gli parte la ciabatta».
Con chi non andrebbe a cena?
«Con Orsini, non mi divertirei. Ha pure minacciato di querelarmi».
Qualcuno si è mai arrabbiato per le sue imitazioni: Freccero, l’avvocato Taormina...?
«Taormina. Non risponde più al telefono».
Si ispira a qualcuno per la conduzione?
«Vespa è un’istituzione, con Santoro sono cresciuto».
E Lerner?
«Non credo che siamo amici. Gad è del fronte a cui non piace la Zanzara. Ma all’epoca volevo fare il giornalista perché c’era il suo Pinocchio».
Di cosa ha paura?
«Con la morte non riesco a farci i conti. L’idea della perdita definitiva. E ho paura di perdere Nathania».
L’ultima volta che ha pianto?
«Quando è morta nonna Margherita. E mi commuovo ancora quando penso ad un episodio che la riguarda: avevo 8 anni, lei mi portò al cinema. Di rientro la vidi scossa. Ho scoperto solo quando morì cosa fosse successo: le avevano rubato il portafoglio con dentro la stella gialla affibbiatale a Bergen Belsen. Era il suo legame con il papà, che dal quel campo non uscì».
Cosa farà da grande?
«Sogno qualcosa che metta insieme le mie due anime, quella della radio e quella seria della tv. Vorrei essere un Alberto Angela pop».