Corriere della Sera, 4 luglio 2023
Le motivazioni della condanna di Davigo
«Le modalità quasi “carbonare”» con cui i verbali segreti dell’avvocato Piero Amara sulla “loggia Ungheria” nel 2020 «sono uscite dal perimetro investigativo del pm milanese Paolo Storari (formato Word, chiavetta Usb, consegna a casa di Piercamillo Davigo), e le precauzioni adottate» dall’allora consigliere Csm ed ex pm di Mani pulite «in occasione del disvelamento ai consiglieri nel cortile del Csm, paiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale»: tanto che il Tribunale di Brescia, nel motivare la condanna di Davigo a 1 anno e 3 mesi per rivelazione di segreto, colgono «un cortocircuito sinergico reciprocamente fuorviante» tra i due, senza che si possa capire «se quella di Storari sia stata davvero un’iniziativa “self made” o se non vi sia stato, invece, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra, un qualche mentore ispiratore» nel quadro di «eventuali interferenze verificatesi all’interno della Procura di Milano». Suggestione che i giudici Spanò-Macca-De Nisi non portano alle conseguenze della trasmissione di atti ai pm, ma lasciano trasparire dietro il «vero e proprio sterminio di atti, corpi di reato, chat, mail, telefoni, pen drive ed indirizzi mail», una «morìa di possibili elementi di riscontro che è lecito pensare sia avvenuta in epoca da ritenersi ragionevolmente prossima alla perquisizione nell’aprile 2021 di Contrafatto», cioè della segretaria di Davigo al Csm, assolta mesi fa a Roma dalla calunnia del procuratore milanese Francesco Greco. Dopo questa assoluzione, e dopo le due assoluzioni bresciane di Storari, è la quarta differente lettura in 4 verdetti attorno ai verbali che il pm Storari diede nell’aprile 2020 a Davigo come reazione al percepito immobilismo dei suoi dirigenti Greco e Pedio nel distinguere in Amara verità e calunnie, potenzialmente impattanti in maniera indiretta su Amara e Armanna molto valorizzati all’epoca dalla Procura contro Eni nel coevo procedimento sui depistaggi giudiziari Eni; verbali che poi Davigo, a suo dire per «riportare sui binari della legalità» il procedimento Ungheria non ancora iscritto a Milano, in quel 2020 riferì o fece vedere o persino consegnò a 10 consiglieri Csm, spesso condendoli di negativi accenni all’ex amico e membro Csm Sebastiano Ardita.
Quella di Greco e Pedio non fu «colpevole titubanza» ma «giusta prudenza» nella «difficile gestione di un materiale limaccioso», giudica il Tribunale che non ritiene di trattare l’immediato utilizzo che pur fu fatto dai vertici milanesi proprio solo di uno stralcio di Amara che gettava ombre sul giudice presidente del processo Eni-Nigeria. Davigo, «cavalcata l’inquietudine interiore di Storari», ne vinse «le titubanze» a dargli i verbali di Amara con la tesi giuridica infondata della non opponibilità del segreto d’indagine ai consiglieri Csm, e poi «allargò in maniera indebita la platea dei destinatari della rivelazione»: sia tra i membri Csm, come segnala «l’imbarazzo e la solerzia con cui il vicepresidente Csm Ermini si liberò frettolosamente del possibile corpo del reato», sia al presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, «che non aveva alcun titolo» al pari delle segretarie di Davigo. Un’«incontinenza» nella quale, pur senza cosciente volontà di calunniare Ardita, Davigo per i giudici «ha utilizzato il tema dell’asserita appartenenza massonica per fargli terra bruciata intorno», con l’effetto di «disseminare tossine denigratorie nella stretta cerchia dell’ex amico e ripercussioni anche sul corretto funzionamento del Csm».