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 2023  luglio 03 Lunedì calendario

UNA VITA DA “VENERE NERA” - L’INCREDIBILE STORIA DI JOSÉPHINE BAKER RACCONTATA DAL GIORNALISTA MARCEL SAUVAGE CHE PER ANNI HA RACCOLTO LE MEMORIE DELLA GRANDE ARTISTA CHE PORTÒ IL CHARLESTON IN FRANCIA - LE TOURNÉE TRIONFALI E GLI EPISODI DI RAZZISMO: UNA VOLTA A NEW YORK VENNE MANDATA VIA DA DODICI ALBERGHI E DOVETTE INTERVENIRE IL SINDACO – POI IL RUOLO NEI SERVIZI SEGRETI, I QUATTRO ANNI IN AFRICA E… -

Oggigiorno, dice Joséphine Baker nelle sue memorie, non si muovono più il naso, le orecchie e le dita dei piedi, nessuno osa più ridere, piangere, fare le smorfie. Solo occhiate convenzionali, una «immobilità spaventosa». Quando guarda gli spettatori, Joséphine si dice: ecco il tuo ruolo, smuovere quei visi tristi. Ha cominciato così, infilando i pollici nelle orecchie e incrociando gli occhi; il ballo, per la Venere nera, è un istinto di snodo futurista, cubista.

Allegro, selvatico, certo. Ma le sue leggendarie rotondità nere e vellutate – il sedere che ride (Simenon dixit), i seni liberi, le ginocchia piegate, la palla di gelatina nera dei capelli, le braccia usate come gambe e poi, insieme, come quattro zampe – Joséphine Baker le piega tutte a squadro, e salta; il charleston che importa a Parigi è «l’epilessia americana».

Nelle memorie, che rilascia, nel corso di vent’anni, al giornalista e scrittore Marcel Sauvage, La mia vita ( tradotta da Mimosa Martini per EDT) ha un programma: «Solo cose divertenti » . Ma poi, negli anni, Joséphine lo guida senza parere, con una finezza spaventosa perché inavvertibile, a arricchire e modificare la propria leggenda.

Ricalca e ribadisce l’immagine voluttuosa, scandalosa, irrefrenabile della “Nefertiti di oggi”, come la definiva Picasso. Ma tra tante piume e paillettes, a emergere è il suo impegno. Per gli animali, le donne, per costumi liberi, e per la causa nera, ovviamente. Al cinema ho imparato cos’è un negro, ride. «Un negro qui!» gridava il regista di culto, Marc Allégret: «Avvicinatemi il negro! Mandate via il negro!» (è la lavagna su cui si scrivevano le battute) – sperava Joséphine di creare un’impresa cinematografica per gli artisti di colore francesi, la Noir-Film (non se ne fece nulla).

A New York però, nel dopoguerra, viene mandata via (“ sorry, very sorry”) da dodici alberghi. Alcuni amici ( vedettes nere, come Lena Horn) chiamano il sindaco di New York; allora all’hotel la tengono, ma quando col marito ordina la cena in camera, la portano senza posate e senza tovaglioli; i letti non vengono rifatti e il telefono non funziona. È il dopoguerra: pensare che è stata arruolata nei servizi segreti della Francia Libera, capitano militare, decorata con la medaglia della Resistenza e la Legione d’onore da Charles de Gaulle

[…] Nei ricevimenti, raccoglierà informazioni, sull’Italia soprattutto: entrerà in guerra o no? E le tournée: in Spagna, Portogallo, Brasile, e, quando da Londra chiedono di creare nuove reti di collegamento, tanta Africa.

[…] Quattro anni in Africa, quasi due in clinica, malata (anche quella sua stanza un centro di informazioni); la febbre a 40 quando gli Americani entrano in guerra; quando sbarcano, e ci sono bombardamenti, di corsa nel giardino dell’ospedale. Insomma, rifiutare lei, che ha combattuto il nazismo per quelle idee sulla razza. Lei che il 3 gennaio del ’ 45 ha chiuso il galà offerto dagli Alleati ai quattro generali, inglese, francese, russo e americano, nel Palazzo di Giustizia di Berlino, tra ratti e macerie - e poi per i soldati spettacoli ogni due ore, dalle dieci di mattina alle undici di sera;

i commilitoni portavano chili di attestazioni di arianesimo trovati nel Reichstag distrutto. Lei che è stata ricevuta con onore a Sigmaringen, prima donna di colore tra quei marmi degli Hohenzollern. A Algeri, sul palco d’onore, era accanto a madame de Gaulle. Tutto è spumeggiante; compaiono Ali Khan con Rita Hayworth, Farouk, Colette, Pirandello, il papa, le Folies Bergères, e Saint Louis, dove bambina ballava per riscaldarsi. Però nel 2021, è entrata nel tempio francese del Pantheon; lo ricorda emozionato, nell’introduzione, Jean- Claude Bouillon, un figlio adottivo, il quinto: erano dodici.